Homeland - prima stagione
Anno: 2011 - Nazionalità: USA - Genere: Thriller, Spy-story - Stagioni: due (in corso) - Ideatore: Gideon Raff
Carrie è un'agente delle
CIA da anni sulle tracce del terrorista Abu Nazir. Per Carrie Abu
Nazir è quasi un'ossessione, il lavoro contro il terrorismo è un'ossessione.
Ossessione che si trasforma in realtà il giorno in cui riceve una
soffiata – un americano si è convertito all'Islam e sta per
rientrare in patria, a quanto pare con lo scopo di compiere un
attentato nella sua terra.
E un americano, in
effetti, viene ritrovato: dopo otto anni di prigionia, creduto morto
da tutti, il sergente dei Marine Nicholas Brody riemerge dalle profondità di un
buco.
A quel punto, anche Brody diventa un'ossessione. Un'ossessione
talmente forte che Carrie scavalca la legge e inizia a
spiare il marine con tanto di telecamere nascoste. Un'ossessione talmente
forte che Carrie, ad un tratto, confonde vita e lavoro e attira Brody
nelle sue maglie – dimenticandolo, il lavoro.
In realtà, non è chiaro
quanto, per Carrie, il lavoro sia vita e la vita lavoro o quanto il
lavoro sia una distorsione della sua psiche: perché Carrie è
bipolare e può tenere il suo disturbo sotto controllo solo grazie a
delle grosse pasticche tenute segretamente nel tubetto delle
aspirine – se qualcuno, alla CIA, scoprisse la sua malattia, Carrie sarebbe fuori da tutti i giochi.
Homeland è una serie
geniale, per vari motivi: per le trovate in sceneggiatura, per il
modo in cui è girata, per la scelta degli attori.
Le linee narrative
sono molte ma si intrecciano tutte in un unico
macrofilone perfettamente coerente.
Tutto si regge attorno a
due personaggi. Il primo è Carrie (Claire Danes), figura davvero immensa e rara
da trovare, con una tale bravura attoriale, in una serie tv. La Danes
costruisce una Carrie apparentemente coerente, ma in grado di
depistare silenziosamente lo spettatore. Quando è tenuta sotto
controllo dai farmaci, i suoi atteggiamenti ossessivi e a tratti
paranoici sono mediati da una razionalità imposta: il risultato
è una recitazione tutta tesa e nervosa, fatta di gesti irruenti ma
controllati, fermi a un passo dall'istinto cieco. Quando
l'effetto delle pasticche svanisce – vi rimando alle ultime due
puntate – la malattia viene
fuori con prepotenza: in quei momenti, la Danes dimostra di aver
studiato nei minimi dettagli la mimica del suo ruolo, senza
abbandonarsi al caos di gesti incontrollati (come spesso fanno molti
attori poco preparati di fronte all'interpretazione di una malattia
mentale).
L'altro personaggio
focale è il sergente Brody, interpretato da Damian Lewis. Anche lui
sa tenere sul filo del rasoio: eccellente nel rendere ambiguo e fosco
il suo personaggio. Sembra il bravo padre di famiglia, l'eroe degli
Stati Uniti, il reduce torturato che cerca tenera comprensione in Carrie. Ma dietro i glaciali occhi azzurri iniettati di sangue
nasconde l'uomo che rimane per un giorno intero seduto ad un angolo
della casa, quello che ha violenti incubi notturni, quello che fa un
sesso sbagliato con una moglie che non riconosce più. Quello che ha
saldi principi morali e che si muove tra tradimento e coerenza,
giustizia e terrorismo.
Poi c'è un terzo
attore in grado di mettere in ombra tutti quando entra in scena
e di fare dei testa a testa pazzeschi con la Danes: Mandy Patinkin che, nei panni di Saul Berenson, ci regala una delle interpretazioni più sentite della sua carriera televisiva. Saul è amico, mentore,
quasi un secondo padre per Carrie. L'unico che ne segue i
ragionamenti e che la comprende davvero. Deuteragonista
imprescindibile e ben costruito.
Infine, occorrerebbe
ragionare su come è girata questa serie. Sulle prime, si direbbe in
maniera non troppo particolare. In realtà, è il modo in cui sono
accostati sequenze e blocchi narrativi a fare la differenza. La
serie procede in maniera apparentemente piatta; poi ha degli scoppi
improvvisi e inaspettati. Stai lì a seguire dialoghi e ragionamenti,
poi arriva, senza preavviso, la scena di sesso che sconvolge ogni
aspettativa; ed ecco che la narrazione si fa di nuovo silenziosa e
all'improvviso esplode qualcosa; la storia si fa ancora dormiente, si riempie di nuovo di dialoghi e ragionamenti ed ecco che Carrie impazzisce. Insomma, una
struttura con una linea che procede dritta, come la più classica delle serie tv, e che poi si diverte a deviare con sbalzi verso l'alto che scioccano lo spettatore.
L'aspetto positivo sta
anche nella relativa brevità delle stagioni. Dodici puntate possono
essere più che sufficienti se si vuole rendere compatta la storia e
privarla di quella dispersione a cui vanno incontro troppe serie
televisive che vivono di allungamenti non necessari.
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