Solo Dio Perdona

Titolo originale: Only God Forgives - Anno: 2013 - Nazionalità: Danimarca - Genere: Thriller - Regia: Nicholas Winding Refn
Nel cinema danese ci sono tre titoli
che sembrano essere legati dallo stesso filo. Ordet di Dreyer, Deliver us
From Evil (Fri os fra det onde) di Bornedal e Only God Forgives di Refn. La
Parola, Liberaci dal Male e Solo Dio Perdona. La Parola di Dreyer era
ovviamente un mezzo per l'Altissimo. Era la preghiera, quella finale, che
resuscita la bella Inger morta di parto. Dreyer, forse, aveva fiducia. In un
mondo sconvolto dai dissidi e dalle guerre religiose, aveva fiducia che la
parola di un uomo potesse essere ascoltata da dio e potesse riportare vita e
pace in una famiglia disastrata. Dreyer non aveva solo fede in Dio, ma anche
nell'Uomo e nella sua capacità di usare le parole giuste e di fare le azioni
giuste.
Bornedal non ha questa fiducia,
tutt'altro: è convinto che l'uomo, anche il più insignificante, il più
sorridente, il papà di famiglia che bacia la moglie e porta a
scuola il figlioletto, ecco, è convinto che anche quell'uomo sia pronto a
imbracciare una sparachiodi per fare male - davvero del male. Bornedal ci dice
che non esiste nessuna parola sacra che possa elevarci: semmai esiste
l'istinto, quello che porta un'intera cittadina a volersi vendicare di un
omicidio e una famiglia a barricarsi in casa e a escogitare le più inusitate
violenze pur di salvarsi. Ecco, per Bornedal la salvezza passa dalla violenza,
ma la salvezza è solo fisica, l'anima ristagnerà per sempre.
Refn, invece, cerca la redenzione.
Conosce a menadito la lezione formale di Dreyer. E non può non conoscere il
lavoro del "fratello maggiore" Bornedal, col quale si scambia di
continuo gli attori (Mads Mikkelsen e Kim Bodnia, ad esempio). Refn scrive una storia di
redenzione: perché la storia di Julian (un Ryan Gosling che sa esprimersi con
ogni millimetro del corpo, altroché!) è una storia di redenzione. E dove
ambientarla se non in uno di quei posti che per noi occidentali hanno il sapore
del fosco e del perduto? Dello straniante, del mondo alla rovescia? Qui Julian
trova pane per i suoi denti: e mette a posto la sua vita. Perché nel giro di
una condensatissima ora e mezza, Julian perde il fratello e ne giustifica
l'assassinio (aveva stuprato e ucciso una ragazzina) e si libera di una madre
troppo presente e castrante.
Julian decide di non fare più del
male. Non più quel male gratuito, da boss, da mafioso. Comprende la giustezza
della morte del fratello: lascia andare il suo assassino. A questa sua
decisione, a questo viaggio a ritroso dall'inferno, Julian pare rispondere con
una sorta di impotenza sessuale (o di spostamento della virilità fuori dell'organo sessuale). L'unico suo strumento - anche per far godere
le donne - sono le mani. Il gesto, cioè. In un solo film, Refn ci dice che non
è la parola sacra a risollevare l'uomo, ma il gesto sacro. Anche violento, sì:
purché rivolto a qualcosa di superiore. L'implacabile poliziotto già lo sa, già
lo fa. Con la sua affilatissima lama uccide o taglia, in base alla punizione
che il colpevole merita.
Nel momento centrale del film -
meravigliosa sequenza frontale e dall'alto! - Julian e il poliziotto si
scontrano ad armi (quasi) pari: le mani. Lottano, ma Julian non ha ancora
completato il percorso, non ha ancora quella forza morale che gli può
permettere di vincere. Da quel combattimento, si comprende: Julian e il
poliziotto sono la stessa cosa, uno il rovescio dell'altro, uno la conseguenza
dell'altro. Sono un chiasmo, ognuno dei due si trova ad un'estremità della
croce e percorre il cammino verso la decostruzione dell'io e la ricostruzione
della propria anima. E, infatti, pur in sequenze parallele e diverse, i due
lavorano insieme, allo stesso scopo. Il poliziotto uccide la madre di Julian e
lo libera. Julian uccide tutto il marcio e lascia in vita la figlia del
poliziotto - sola scena importante, climax, finalità di tutto il racconto.
Salvare una bambina, perdere l'inquietante madre, sventrarla e penetrarla con la mano per stabilire la sua forza (morale), redimersi, tutto in un
istante.
Julian è libero. Pronto, in un luogo
finalmente aperto, finalmente verde, a subire la punizione rituale e necessaria
per intraprendere la nuova vita.
Se Dreyer porta l'uomo verso il divino
e Bornedal verso il demonio, Refn rende l'uomo un dio. Qui i due protagonisti
fanno tutto da soli, non esiste una vera divinità superiore. Sono due figure
mitiche, sono due hybristes che del dio che sta lassù o
laggiù se ne fregano. La divinità ce l'hanno dentro: per questo decidono da
soli quale sia il cammino dall'inferno, la redenzione e la punizione.
Refn ci restituisce il film più
compatto della sua carriera. Non è un'opera aperta allo spettatore come Drive,
né un film istrionico come Bronson, né lungo e concettuale come Valhalla Rising, né un genere calato nel documentario come Pusher. In novanta minuti di
coerenza formale e poetica Refn mette tutto il suo cinema.
Un film onirico che ha ispirazioni
importanti: Refn costruisce gli spazi come il miglior Lynch, si addentra nella
violenza psicologica come Kim Ki-duk, esplode in una violenza efferata e
calcolata come Park Chan-wook, si muove tra lentissimi primi piani che hanno
echi della muta Giovanna D'Arco di Dreyer. Il tutto, però, è chiaramente
filtrato attraverso la poetica del buon Nicholas, che gira un film teso come una corda di violino, lento eppure in grado di esplodere
all'improvviso in movimenti e momenti violenti - dei personaggi e della regia.
Questo film non è solo un film. È un
processo per lo spettatore. Che sia tutto legato alla dedica di Refn a
Jodorowsky? Che c'entri qualcosa la psicomagia di Jodorowsky? Quella terapia
misteriosa fatta di gesti strani e incomprensibili, apparentemente illogici ma
radicati nel profondo - come spesso fa lo stesso Julian?
Dovrebbe essere ormai chiaro. Refn è
un autore complesso. Ora si comprende perché qualcosa, in Drive, appariva
sfilacciato: era dovuto ad una addolcirsi del suo modo di fare cinema. In Solo
Dio Perdona Refn è tornato Refn: fotte lo spettatore a ogni film, a ogni
sequenza. Lo inganna, gli dà i brividi, lo scaraventa sulla poltrona, lo manda
fuori di testa, lo fa gridare all'osceno, allo scandalo: e intanto gira
capolavori.
Commenti
Io credo che, in fondo, il nulla sia lo scopo di Refn. Tutti i suoi personaggi sono ingabbiati in una vita priva di senso, che si ripete di continuo - penso a Bronson e alla sua violenza gratuita e ridondante, al vuoto delle corse in macchina del Driver di Drive, al vuoto che ti lascia un film sfuggente come Pusher.
E, ad un certo punto, i personaggi di Refn vogliono dare un senso al nulla della loro vita. Bronson lo fa mettendosi sul palcoscenico; One-Eye, in Valhalla Rising, si sacrifica per il bambino, dando senso alla sua vita di violenza; il Driver cerca di salvare Irene; Julian tenta di riscattarsi da una vita che si ripete inutile e incessante - salvando la bimba e sacrificando le braccia.
Nessuna vita ha un senso, finché non si decide di fare quel gesto (finale o meno) pieno di significato.