Anna Karenina
Anno: 2012 - Nazionalità: Regno Unito/Francia - Genere: Drammatico - Regia: Joe Wright
Il classicismo di Joe
Wright è anticlassico. Joe Wright è un manierista del cinema.
Perché barocco proprio non può essere definito: nelle sue opere, il
classicismo è portato fino alle estreme conseguenze, a volte è un
estenuante esercizio di stile, ma non supera mai i limiti. Un
Parmigianino del cinema. Perché Joe Wright prende il cinema, quello
classico per eccellenza, e lo mescola allo stile moderno – quello
del metacinema – e a quello postmoderno – cioè il cinema
classico che riflette su se stesso.
Il risultato è uno degli
stili cinematografici più interessanti della contemporaneità.
Secondo punto: Wright
esplora l'amore. L'amore in tutte le sue forme. Da quello canonico a
quello dannato a quello per l'arte fino al non-amore di Hanna – la
ragazzina che non era in grado di provare sentimenti.
Anna Karenina va a
incastrarsi perfettamente in questa riflessione wrightiana sull'amore e
prosegue il viaggio nel cinema classico rivoluzionato dalla
postmodernità.
Come confrontarsi con un
monumento quale è Anna Karenina di Tolstoj? Come esplorarlo per
l'ennesima volta, come leggerlo, come esaltarlo ancora una volta
tirando fuori nuovi significati e nuove prospettive?
Se c'è una cosa che
emerge dal libro di Tolstoj è un senso perenne di soffocamento. Non
dato dai tre volumi e dall'enorme mole di pagine. Il soffocamento è
dato dalle parole, dalle situazioni, dal personaggio di Anna che non
ha vie d'uscita e che sul finire ha un ripiegamento interiore
insopportabile, che vive situazioni sempre uguali,
sempre più frustranti e aride. Poi c'è la storia di Levin, dalla
parte del quale Tolstoj si mette chiaramente: ma, con Levin, Tolstoj
non riesce quasi ad aver presa, perché le parti a lui dedicate
diventano un saggio di spiritualità e di politica economica.
Un romanzo estremamente
denso. Assurto a capolavoro. Ma non è un capolavoro solo per la
capacità che Tolstoj ha avuto di narrare i tempi che correvano.
Tolstoj ha avuto il pregio di mostrarci con più di quarant'anni di
anticipo la fine della Russia zarista. Non sapeva cosa sarebbe
accaduto, ma la Russia dei nobili era ormai talmente adagiata su se
stessa che non avrebbe avuto vita lunga. Anna rappresentava quella
nobiltà falsa e gretta, tanto immobile da non riconoscere i
sentimenti – e neppure la morte. Levin rappresenta il nuovo, la
Russia libera dagli ori, dai palazzi, dalle chiacchiere prive di
senso. Una Russia all'aria aperta. Tra i campi di grano e con la
falce in mano.
Wright coglie al volo la
metafora. E non gioca tanto con i personaggi, i dialoghi e le loro
paranoie. Gioca con la scenografia. E con la macchina da presa,
ovvio. Il suo film è un incontro solenne e sublime di macchina da
presa e scenografia, macchina da presa e quinte teatrali, macchina da
presa e carrelli, sole, vento e neve. È in quel gioco di
interni-esterni reali-esterni falsi che occorre vedere tutto il
lavoro di Wright. Gioco che, tra l'altro, permette al regista di
continuare ad essere un manierista, un classicista figlio del
Duemila, quello che distribuisce colori, forme oggetti con una
simmetria estenuante e che, però, distrugge tutto il simmetrico con
una riflessione metafilmica.
Dove c'è assenza di sentimento, di
verità, di sincerità e lealtà, Wright inserisce a forza i suoi
personaggi/manichini nelle quinte di un teatro. Il loro mondo è
tutto tra la platea, il palco e il dietro le quinte, in un luogo
soffocante, sempre uguale, che circola e ritorna allo stesso posto,
senza via d'uscita. Quel teatro è la casa di Stiva, è la stazione,
è il ristorante, è il luogo di tante feste a cui partecipa Anna, è
la camera da letto dei Karenin. Quel teatro è il falso prato fiorito
del finale, un finale amaro, in cui un Karenin assente, privo di
sentimenti, guarda giocare i suoi due figli felice di aver rimesso
tutto in ordine. Più nessun virus nella sua vita, solo aria di
plastica, fiori di plastica, cielo di legno, perimetro circoscritto.
Un finale più amaro di questo, Wright non poteva dedicarlo alla già
tanto sofferente e vituperata eroina di questa tragica storia.
Levin, invece, che vive
di verità e realtà, non abita quinte teatrali, ma una casa vera. E,
quando esce, ha a disposizione aria, prato, cielo, sole e neve veri.
La bravura di Wright si vede anche da questo: cambia registro
stilistico come se nulla fosse, portandoci di fronte ad un film che
muta fotografia e muta stile al cambiare del suo significato. Ai
colori perfettamente controllati delle quinte teatrali e dei falsi
interni-esterni, Wright alterna un realismo mai
visto nelle sue opere: quasi non riesce a controllare la luce, che abbaglia la
sua macchina da presa senza poter essere ingabbiata in una scelta
artistica. La luce se ne vola ovunque, colpisce il fieno, le lame
delle falci, il viso tondo e sincero di Kitty che lava il fratello
clandestino di Levin, facendosi aiutare dalla compagna prostituta –
quasi un quadro alla Courbet.
Ad Anna non capita mai di
respirare quell'aria e quel sole. Perché, sì, il suo amore è vero,
è reale e sincero, ma un sentimento così forte, messo in gabbia –
tra vestiti, gioielli, teatri, convenienze – provoca solo dolore,
sofferenza e morte. Vronskij si consuma piano piano, lei si dà alle
droghe. E il loro non è un amore contrastato, il loro è un amore
soffocante che aveva soffocato il lettore di Tolstoj e ora soffoca lo
spettatore di Wright.
Anche il film, sul
finire, si ripiega su se stesso: ma per volontà del regista. Nella
magnifica – e anche ironica – macrosequenza iniziale (che ha
un'eco della long take sulla spiaggia di Espiazione), Wright ha
mostrato allo spettatore la chiave di lettura del film,
abbagliandolo. Dopo, quell'originale chiave di lettura volutamente
si offusca, lasciandoci in preda al panico da claustrofobia. Anche il
romanzo si fa ridondante sul finire, impossibile da sciogliere. Si
aspetta la morte di Anna come una liberazione.
Wright si affida ad un
maestro in particolare per il suo film: Aleksandr Sokurov. In ogni
anfratto del film si respira Sokurov, nei piani sequenza (falsi o
veri) c'è Sokurov, c'è il suo Arca Russa, c'è l'imbuto
del Palazzo d'Inverno che apre porte su porte ma rimane sempre dentro se
stesso. Solo che l'osservatore di Sokurov, sul finale, trovava
l'uscita giusta, quella che lo conduceva all'infinito, in una sorta
di espiazione del vedere. In Wright l'uscita non c'è. Se per Tolstoj
l'espiazione estrema (la morte) è l'unica strada dopo l'errore e la sofferenza, per Wright la via
d'uscita è solo nell'arte. Ma occorre fare un distinguo. Perché nel
suo film Espiazione, la storia d'amore contrastato trovava un finale
“giusto”, trovava la sua via d'uscita nella stesura di un
romanzo, quindi nella finzione. Il finale di Anna Karenina ci mostra
un occluso proscenio invaso da false piante di un falso prato sotto
un falso cielo.
E allora, deve esserci sempre un netto spartiacque tra finzione e falsità: l'una porta la vita e la creazione, l'altra conduce inesorabilmente tra le rotaie, mentre
il treno sfreccia indifferente.
Commenti
Ma che personaggi odiosi e che attori inadatti al ruolo!!!
Rispetto ad Espiazione, per me un passo indietro.
@Babol: a parte la Knightley (sulla quale ancora non so esprimermi), visto il film, credo che Wright abbia voluto personaggi odiosi. A tratti il film sembra voler essere spiccatamente insopportabile!
ma come coinvolgimento in effetti non è proprio il massimo...
Be': lo faccio io.
Splendida rece. Eri vistosamente ispirata. Sai analizzare senza giudicare, ma qui l'hai fatto in maniera lirica e coinvolgente,dimostrando profondita' e intelligenza.