Quod erat demostrandum e I corpi estranei - Festival Internazionale del Film di Roma



Finora due film in concorso sono stati visti.
Il primo è Quod erat demostrandum, un lungometraggio romeno sul rapporto tra ricerca scientifica e dittatura all'epoca di Ceausescu. Il film è molto interessante, soprattutto per un controllo formale che non si vedeva al cinema almeno dagli anni Sessanta e dall'epoca d'oro dell'autorialità europea. Ne parlerò più diffusamente nel mio pezzo in uscita per Taxi Drivers.

L'altro film in concorso è I Corpi Estranei di Mirko Locatelli.
Antonio parte per Milano col suo bimbo malato. Padre e figlio passeranno settimane lente in ospedale, tra operazione e terapia. Qui, Antonio conoscerà altre persone e sarà costretto a uscire dal suo guscio di ignoranza e pregiudizio.



Il film - almeno alla proiezione vista da me - ha ricevuto un'accoglienza un po' fredda, ma occorre ben capire il senso del lungometraggio. Ci si può fermare alla storia e alla sceneggiatura: la prima interessante e toccante, la seconda sviluppata un po' meno bene, se non altro perché, con un tema del genere, avrebbe potuto raggiungere climax interessanti, invece rimane piuttosto monocorde e sempre uguale a se stessa. Non distingue, cioè, tra momento di raccordo e momento clou - anzi, il film è tutto un raccordo, nulla è clou.
Allo stesso tempo, però, sempre visto il tema affrontato, ha un suo senso narrare una storia priva di climax, anzi, una storia volutamente sfiancante. Uno degli argomenti affrontati è l'attesa: l'attesa per la malattia del bimbo, per i responsi delle analisi, per l'esito dell'operazione. E l'attesa ferma il tempo, l'orologio non gira più, tutti i momenti sono uguali a loro stessi: con un'attesa del genere, dolorosa, esistono solo la stasi e l'angoscia. Certo, si potrebbe dire che, nella vita di tutti i giorni, quando si ha una risposta o arriva qualcosa che si attende, l'essere umano vive un climax. Ma, tuttavia, se l'intenzione del regista era quella di fermare il tempo creando senso di stasi, l'operazione è riuscita.



Veniamo al titolo, I corpi estranei. La storia, apparentemente, è quella di un padre che porta il figlioletto in un centro oncoematologico pediatrico per le cure necessarie. In realtà la storia non è sulla malattia del bimbo, la storia riguarda solo Antonio e il modo in cui cambia-non cambia, aspetta, desidera, si comporta. No, non è ancora esatto: la storia non è quella di un padre, è quella del corpo di un padre. È indubbio che il vero interesse per la macchina da presa sia quello nei confronti del corpo di Antonio. Già la scelta dell'attore appare inequivocabile. Filippo Timi è un uomo dalla bellezza rude e maschia, esplosiva e centrifuga; la sua voce è cavernosa, tenebrosa, lo sguardo fulminante. La macchina da presa indaga lui, Antonio col corpo di Timi, mentre fuma, fa la doccia, telefona, prega, bestemmia. La macchina da presa si attacca ad Antonio e di Antonio coglie mosse, sguardi impercettibili, gesti invisibili, il movimento dei muscoli, dei polmoni, del sangue che scorre. La macchina da presa entra nella carne di Timi - e gli altri smettono di esistere. Antonio/Timi è una monade, estraneo al contatto con gli altri, i quali, in breve, diventano solo fantasmi: la moglie è solo una voce mai udita al telefono, a cui Antonio risponde con un rozzo: "c'ho voja de scopà"; i ragazzi tunisini che gli si muovono attorno sono, per lui, esseri inferiori, bisogna lavarsi le mani dopo averli toccati; gli altri padri in piena sofferenza come Antonio diventano accessori di cui disinteressarsi. Antonio non si accorge degli altri, vive solo se stesso, sente solo se stesso. Anche suo figlio rischia di sparire, non sempre per fortuna. Il piccolino è l'unico con cui Antonio ha un rapporto più carnale - il padre lo bacia sulle manine, sulla bocca, lo imbocca, ne ascolta il pianto straziante. Eppure, a volte, anche il corpo del bambino svanisce, rimane solo Antonio col suo problema folgorante: e si capisce che, quando il dolore è talmente tanto, si rischia di isolarsi per proteggersi da tanta atrocità. In fondo, nella sua vita rozza, ottusa e piena di pregiudizi, Antonio è un eroe: i suoi comportamenti sono un proteggere e un proteggersi.
Il film poteva dare molto di più, specialmente sul versante del ritmo e sui sopracitati climax. Ma, in definitiva, è un'opera riuscita, perché si avverte una certa compenetrazione tra forma e contenuto.

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