PROIEZIONI NOTTURNE - Che - Guerrilla
Il "si" impersonale diventa improvvisamente discorso in prima persona.
"Che - Guerrilla", la seconda parte dei film sul Che di Steven Soderbergh, racconta l'ultimo anno di vita di Ernesto Guevara, impegnato nella guerriglia di liberazione in Bolivia.
La macchina da presa - essenziale e lirica allo stesso tempo - è continuamente in movimento: traballa, è a mano, punta dei particolari e lascia sullo sfondo le persone. E' lei la vera protagonista del film. E' un occhio esterno al film: la storia non è costruita in modo classico, non c'è mai un campo/controcampo che con un primo piano mostri i personaggi, le loro relazioni e i dialoghi. Tuttavia la macchina da presa non è fredda. Partecipa continuamente. Si sofferma su particolari apparentemente banali. Lascia poche frasi al Che, poche frasi politiche ma di grande impatto. La musica è ridotta al minimo: pochi accordi di chitarra strappati o arpeggiati che in pochi istanti ci portano al sud America. A volte il suono è ovattato e satura l'immagine, Soderbegh preferisce far sentire i rumori della natura (altra grande protagonista) e sovrastare le voci dei personaggi. Niente sangue. La violenza è sempre fuori campo, immaginata e per questo ancora più violenta. L'operazione che il Che fa al suo compagno ferito all'addome avviene tutta fuori: ma è sconcertante il silenzio delle teste che si scuotono in un "non c'è più niente da fare" e il modo con cui il medico rivoluzionario abbraccia l'amico: "il peggio è passato" e lo accarezza finché non muore.
Ecco che all'improvviso la macchina da presa si avvicina di più in un primo piano quasi soffocante: il Che ha uno dei suoi potenti attacchi d'asma. Minuti interminabili sul volto di Benicio del Toro (grandissima interpretazione) che non respira, ansima, soffre; e noi soffriamo con lui.
Poi di nuovo la macchina si distanzia. Ma si muove, insegue o anticipa i guerriglieri boliviani. Rimane esterna anche nello scontro finale, quando quasi tutti i compagni del Che vengono catturati e uccisi.
Ma ad un certo punto si lascia di nuovo coinvolgere: il Che viene ferito; si nasconde dietro una pietra, tuttavia stanno giungendo i soldati boliviani. Il Che sta per essere catturato. La macchina è talmente coinvolta da confondersi: si muove, rende le persone e le cose mera macchia nell'inquadratura, rende tutto irriconoscibile e indistinguibile.
Poi di nuovo se ne distanzia. Il Che è catturato e sembrerebbe un prigioniero di stato. Poi tra i soldati boliviani/statunitensi gira una strana frase: "confermato l'ordine 600". Freddo e distaccato, chiamare una cosa così grave "ordine 600". Chi conosce la storia e legge "9 ottobre 1967" sullo schermo sa perfettamente cosa è l'ordine 600.
Un soldatino si offre volontario per metterlo in atto. Entra nella prigione del Che e qui avviene l'inaspettato. Soderbergh inquadra il soldatino frontalmente mentre tende il fucile, pronto a sparare al Che. Ma quando spara, la macchina da presa cade a terra. E' una soggettiva. Stiamo vedendo con gli occhi del Che morente: la sua vista si appanna e, al ritmo di un respiro sfinito, a poco a poco diventa bianca, fino a oscurare del tutto la visione.
Dopodiché, Soderbergh sa che ha esaurito il suo compito: quello di un occhio che deve seguire una storia tanto affascinante quanto complessa e che deve riuscire a comprendere. Nel momento della morte del Che, Soderbergh diventa il Che, vive la sua morte sulla sua pelle (la vive sulla macchina da presa). E' come se noi spettatori vivessimo quella morte. A questo punto ci si può lasciare andare a un commento. E Soderbergh lo fa: l'ultima immagine che ci mostra - con sottofondo di chitarra classica e voce femminile - è il Che giovane, su una barca, che guarda il mare scorrere veloce sotto il motore, in partenza verso una qualunque battaglia. Gli dedica un lungo e intenso primo piano, forse immortale.
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