L’urgenza della nascita

 



Ieri mi sono resa conto che, se me ne si dà la possibilità, parlo compulsivamente del mio parto. Intendiamoci: non sono di quelle che lo spiattella così tanto per, anzi; non ne parlo quasi mai. Ma se l'argomento esce (e ieri è uscito) e se l’interlocutore mi parla del suo parto (e ieri lo ha fatto), dalla bocca mi precipitano le parole del racconto, senza che io riesca a fermarle. Ho notato che non do dettagli raccapriccianti, non scendo nei particolari, mi limito a dire due o tre cose, ma quelle due o tre cose sembrano uscire da sole. Sempre in maniera uguale. Quando lo faccio io non sono più qui ma sono , in sala parto. Rivedo esattamente la scena. Non mi è mai successo con nessun altro ricordo che, anzi, diventa sempre un miscuglio di memoria e costruzione immaginifica.

Quando mi rendo conto che le parole stanno uscendo, mi freno, taglio corto, perché comunque è una cosa mia - e per me voglio tenerla. Eppure, mi chiedo, perché queste reazioni così contrastanti?

Credo che il motivo sia dovuto al fatto che, delle due, è l’unica mia nascita che ricordi. A breve sarà il mio compleanno eppure quello è qualcosa che non mi suscita nulla - so di essere nata, ma non so come, non ricordo, non c’ero. Il vero privilegio di sapere come è la nascita l’ho vissuto partorendo: perché lì è finita una cosa e ne è iniziata un’altra, e la ne di prima nemmeno mi piace più - nemmeno esiste più.

Quindi, ogni volta, le parole del racconto escono da sole perché tanta è l’urgenza di mostrare una nascita, la nascita, la mia nuova nascita: con le parole, quella nascita si ripete e ripete, anche se le parole mai basteranno a tradurre la pienezza di ciò che ricordo. 


Immagine: Turner,  Annibale che attraversa le Alpi

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