Confini




È di nuovo il 30 novembre. Da qualche anno a questa parte è una data che per me ha il sapore del finis terrae. Si mescolano pensieri e ricordi che spesso diventano epidermici: ogni volta che il ricordo arriva mi ritrovo esattamente nel posto in cui ero, lo vedo e ne sento l’odore e in maniera del tutto straordinaria torno a essere quella di uno, due o tre anni fa. 

Lo scorso anno ho ideato un calendario dell’avvento che si è trasformato in una sfilata di ricordi più o meno gioiosi e più o meno dolorosi. Quest’anno non ripeterò l’esperimento. Troppe cose da fare e il momento è così strano. Stiamo vivendo un periodo che mi fa molto arrabbiare. Mi arrabbio con la gente. Per me è tutto molto semplice: c’è una pandemia, osserviamo delle regole, ognuno fa qualcosa di concreto per proteggere i più deboli e i servizi essenziali. Invece ci si ritrova di fronte al festival della lamentela, in cui i discorsi che si fanno sono tra i più deliranti e hanno sempre lo scopo di nascondere l’inettitudine dell’uomo e la sua scarsa voglia di fare.

Così, in questa totale incertezza su ogni fronte e tra la paura di poterci ammalare o che qualcuno di caro si ammali, il senso di finis terrae è ancora più forte.


Tre anni fa entravo nel nono mese e forse, meglio, entravo in vortice di cambiamenti da cui tuttora non riesco a uscire. Sono abituata da sempre a sentirmi dire che sono strana e forse un po’ matta. La realtà dei fatti è che sono molto semplice. Detesto soffrire e i cambiamenti mi fanno soffrire; con i cambiamenti lotto ma poi li faccio miei e quando diventano miei sono un po’ cresciuta e diversa da prima. Diventare madre è il cambiamento eterno per una donna. Il legame ombelicale rimane per sempre e al crescere e all’assestarsi del figlio cresce, si abbatte, cade, risorge anche la madre. È folle non capirlo. Io di cambiamenti ne ho dovuti vivere, perché non ero pronta a quello che sarebbe venuto, perché ho sofferto per varie cose e avrei solo voluto sentirmi coccolata, perché ogni madre è fragile e sta nascendo e crescendo con il figlio. Fine. Non serve poi molto altro. Io personalmente, in più, ho dovuto scontrarmi anche con una personalità, la mia, troppo simile ad un nervo scoperto che ha mescolato ai cambiamenti del presente i troppi cambiamenti del passato, che hanno poi anche avuto l’ardire di ripresentarsi e acuirsi quando il folle caso si è portato via persone e certezze. E le cicatrici aumentavano e altre si calcificavano e a volte io, come faccio da sempre, anziché dire ciò che non va o anziché lasciar andare, mi ritrovo a nascondere e rimuginare. Sono complicata ma vorrei essere più semplice. 

Cerco la semplicità nella routine. Chiara, semplice, prevedibile e meravigliosa. La tazza di latte con i pan di stelle e il vialetto della scuola e i menu che si ripetono nella settimana con i programmi in tv e la pizza in casa il sabato sera sono i più grandi e meravigliosi appigli che ho. Ho bisogno di sentirmi sicura.

Quest’anno, lo ho già detto, il periodo è particolare. Non ho molta voglia di festeggiare, sento per lo più un vago senso di malinconia. Ho solo voglia di sicurezza. Di sapere che i cari siano al sicuro e di sentirmi al sicuro nei piccoli e accoglientissimi metri quadri della nostra casetta. 


Per questo, eccomi di nuovo qui dentro La pie di Monet. Io non sono colui o colei che sta guardando il quadro, né sono la gazza. Io e mio marito e la mia peste siamo là dentro, in quella casetta col camino fumante. Là inizia e finisce tutto. E questo basta. 

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