Lo chiamavano Jeeg Robot



La periferia, le borgate romane: da sempre fucina di pensieri, ideologie, critica sociale, discorso artistico che si fa politico. Abbiamo visto Roma nella sua moderna Suburra e Roma  attraverso Ostia, in Non essere cattivo. Si potrebbe aprire un dibattito infinito sul presente, il passato, le politiche scellerate già a partire dagli sventramenti del ventennio fascista e inerpicarci in saggi che ci porterebbero molto lontano. Eppure c’è stato chi ha reso tale discorso più semplice e più complesso al tempo stesso. Gabriele Mainetti ha scelto un profilmico spesso affrontato nella cinematografia italiana d’autore - la periferia, la borgata, appunto - ma si è confrontato anche con i generi e con la cultura pop degli anni Ottanta: ed ecco che ci troviamo di fronte ad uno dei film - a mio modestissimo avviso - più belli, significativi ed iconici della nostra epoca. Lo chiamavano Jeeg Robot. 
Il merito di questo film è quello di essere potentemente stratificato, così da essere letto e interpretato a vari livelli. C’è chi vi può leggere solo la storia e chi può analizzare il tutto fino in fondo - e poi anche chi vuole divertirsi con una storia apparentemente mainstream sa dentro di sé di aver assistito a qualcosa di molto più profondo di un cinecomic nostrano. 

Ne parlo ora ma ho visto il film quattro anni fa, appena uscito, esattamente in questi giorni: l’ho scovato in un cinema di parrocchia di una cittadina di provincia, sicura, solo dal titolo, che il film sarebbe stato un capolavoro. Dopodiché ho fatto un passaparola estremo, martellante, costringendo ad andare al cinema tutti quelli che conoscevo. Di Jeeg Robot ho il blu-ray, consumato. Di Jeeg Robot ho consumato anche piccoli ritagli che si trovano su YouTube e in particolare la performance davvero iconica di Luca Marinelli - lo Zingaro - che canta Un’emozione da poco: quel Luca Marinelli che nello stesso momento si impegnava in una parte complessa con Caligari e ci regalava uno dei villain migliori del cinema mondiale. 
Lo chiamavano Jeeg robot parte da un presupposto, a me molto caro. Da quella periferia che hai essenzialmente dentro, nella testa, nel modo di vivere, nell’essere convinto che non vi sia via d’uscita, ecco da quella periferia-schema mentale si può uscire innanzitutto con la fantasia. L’arte ti salva sempre, l’arte è una via d’uscita imprescindibile, un’elevazione davvero terapeutica. Mainetti ha preso una delle periferie romane che solo a pronunciarle tutti tremano, Tor Bella Monaca, e ci ha buttato dentro la fantasia. No, niente storia di droga, niente generazioni perdute alle prese con la grande e la piccola criminalità organizzata. Di Gomorra se ne era vista a iosa, di Romanzo Criminale pure, la droga era stata trattata pure con comicità in Smetto quando voglio: qui occorreva fare tutta un’altra operazione. 

Il presupposto - divertente, che ogni romano può capire - è il Tevere, millenario fiume ormai inquinatissimo. “L’acqua der Tevere nun se po bevere [...] perché ce pisciano dentro li ratti” recita un contemporaneo stornello di Rancore, “però ce piace un po’ a tutti quanti”. Enzo, piccolo criminale di Tor Bella Monaca, per sfuggire a due poliziotti nel bel mezzo di una rapina si butta nel fiume e viene a contatto con una sostanza tossica lì illegalmente sepolta. Una febbre devastante lo consuma, in quel cesso di appartamento sperduto nei palazzoni del quartiere: finché la trasformazione in uomo invincibile non avviene. Enzo è figlio del suo tempo, non sono esperimenti né morsi di animali a renderlo forte, ma l’inquinamento. Enzo non ama la gente, anzi, la gente gli fa proprio schifo, e si ritrova a dover gestire una superforza senza in realtà volerne la responsabilità. Non si gasa per quello che sa fare, ma decide di utilizzare il suo potere per scopi poco puliti... come smontare un bancomat e portarselo a casa! Enzo diventa subito un’icona, un mito, in una delle periferie dove la vera rivoluzione è sempre testimoniata da un ACAB che troneggia ogni ingresso, dalla voglia di rivalsa contro lo Stato e il mondo intero. La criminalità diventa un modo per opporsi all’ordine costituito, ma si fa esso stesso ordine costituito, parte del gioco e del sistema. La consapevolezza di questo antieroe un po’ bambino, molto solo, molto ingenuo, comincia a montare solo dopo aver conosciuto Alessia, una ragazza un po’ particolare, un unicum in un mondo di uomini, in un mondo di cattivi, in un mondo di burinotti scafati. Alessia, complice la scomparsa della mamma e un’infanzia dai tratti poco chiari, è rimasta bambina, è pura e guarda tutto il giorno il cartone animato di Jeeg Robot. Aspetta qualcuno che la venga a liberare dal buio in cui vive e quando incontra Enzo sa per certo che è lui l’Hiroshi Shiba della sua epoca. Il cattivo da battere è lo Zingaro, un figuro un po’ joker, un po’ Bowie, un po' esteta de noantri, un po’ nomade, persona che vive del mito che crea di se stesso, con i suoi modi estremi, parossistici, che vagano da un lato all’altro della cultura pop: è quella figura di periferia ipotizzata da Pasolini, quella che entra nei meccanismi di consumo del capitalismo, abbandonando la purezza dei gesti e dei pensieri dovuti all’assenza di sovrastrutture - solo che portato alle estreme conseguenze, fino a renderlo un’icona perfettamente riconoscibile. 
I tre personaggi che Mainetti crea sono tre facce della stessa medaglia: la medaglia di facce ne ha due, e in questo caso sarebbero Enzo e lo Zingaro. La terza è quella invisibile, è l’intercapedine che si trova tra le altre due ed è Alessia, la purezza, la fantasia, quel pizzico di incanto gettato nella realtà più cruda e dura e che rende tutto stranamente meraviglioso. È su di lei che Mainetti si concentra, è lei la chiave di lettura, lei con la
sua calata di periferia eppure con i suoi pensieri tanto semplici e cristallini da essere lame affilate; lei col suo vestito rosa da bambina, da principessa, da gesto di speranza in un mondo che va a rotoli. Lei riesce a colorare e a responsabilizzare la vita di Enzo. Lo Zingaro, più si imbelletta, più diventa una caricatura. Perché il vero uscir fuori di sé e dei propri schemi deve partire da dentro.

Mainetti ci racconta una periferia, una storia di piccola e grande criminalità, con il filtro della fantasia. La realtà diventa gioco e subito dopo arte, icona: a testimoniarlo, l’immagine banksyana che compare sui muri di Tor Bella non appena Enzo distrugge il bancomat. La realtà va guardata, filmata, ma anche interpretata e, se possibile, elevata: solo così nascono i Miti. 

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