Non essere cattivo


Dando uno sguardo alle mie ultime - scarse - visioni cinematografiche, ho notato che c’è un filo conduttore che accomuna storie, ambienti, tematiche dei film che ho affrontato: Roma e le sue periferie. Ho notato anche che tra un film e l’altro gli attori sono sempre i medesimi, andando così a creare una sorta di cortocircuito non tanto tra spazio filmico e vita reale degli interpreti, quanto tra film e film: come se i registi dei nostri tempi non stessero facendo altro che raccontare la stessa grande storia. 

Così, dopo aver assaporato l’intereptazione di Alessandro Borghi ne Il primo re, un film piuttosto atipico, nonché geniale, sull’Antica Roma, anzi, un film che ci mostra l’Antica Roma come mai l’abbiamo vista, selvaggia, primordiale, tribale, sanguinaria - alla stregua di una qualsiasi giungla alla periferia del mondo - eccomi di ritorno per parlare di un’altra interpretazione di Borghi in un altro film che parla di Roma: Non essere cattivo.

Questa mia visione cinematografica in realtà risale a due anni fa circa, in un periodo un po’ complicato, freschissima di maternità - cosa che mi ha condizionato sia la visione, avvenuta in più momenti, sia l’interpretazione del finale del film. Ma non solo: a interpretare il film ci si è messa anche l’esperienza in classe e, in definitiva, ho forse dato al film un significato molto più speranzoso di quello che, invece, il regista intendesse dare.

Il regista è Claudio Caligari: personaggio forse poco conosciuto, ma importantissimo. Ha lavorato solo a tre film di finzione (se proprio vogliamo mantenere una differenza con il documentario, a cui si dedicò moltissimo), il terzo dei quali, appunto, è Non essere cattivo, che va a chiudere la trilogia comprendente Amore tossico e L’odore della notte: tre film su Roma, sulle sue borgate, tre film che hanno visto sfilare gli attori romani più importanti degli ultimi trenta anni. 

Mi è tornato in mente Non essere cattivo, poi, proprio ieri, in realtà. Per puro caso mi sono ritrovata a vedere in classe spezzoni di Billie Elliot e, mentre le immagini andavano in pasto a un pubblico di quindicenni, la mia mente si è dissociata e ha iniziato a fare tutto un discorso sul concetto di periferia. Ho pensato esattamente questa frase: la periferia è un concetto. Non riesci a evadere dalla tua borgata, dalla tua periferia degradata e malfamata, solo perché la vera periferia, in realtà, ce l’hai in testa. Vedevo quel ragazzino ballare tra i casermoni di una periferia molto diversa dalla nostra e non riuscire a oltrepassare il muro che lo separa dal resto del mondo solo perché suo padre non voleva che ballasse.

Ho ripensato a Vittorio e a Cesare, due splendidi Alessandro Borghi e Luca Marinelli, in vero, verissimo stato di grazia. Li ho visti muoversi per Ostia, in un periodo in cui droga, siringhe, HIV e AIDS erano spauracchio e tabù di un’intera generazione ai margini del mondo e che il mondo proprio non riusciva a conquistarlo. Ho ripensato all’analisi lenticolare, chiarissima, cristallina, fulminea, che Caligari ha dato della società degli anni Novanta e che, però, sembra valere tuttora. L’uomo - e l’uomo di periferia in particolare - vuole la sua rivalsa, vuole il suo posto nel mondo. Spesso però ci si aspetta che sia il mondo esterno a venirti a prendere solo che, laddove i mezzi economici e culturali mancano, il mondo ti fagocita. Il mondo ti si presenta come consumo e come il perpetrarsi di quel consumo. Consumo che può essere di droga, ma anche di corpi, di persone ammassate in un luogo lontano dal centro a bivaccare, a deteriorarsi fuori e dentro, a rifiutare il lavoro perché il lavoro ti mangia - ma corpi che pretendono comunque i soldi perché senza denaro il mondo non lo puoi consumare. 

Ma poi cosa si arriva a consumare se non la droga, l’unica cosa che a volte sembra essere la sola salvezza, la sola evasione, il solo modo per uscire dalle regole di un mondo che ti fagocita? I trip lisergici - quelli alla fine dei quali si esplode un colpo di pistola che uccide una sirena, creatura fantastica, metà donna, metà pesce, pesce fuor d’acqua e essere umano che affoga - appaiono come l’unica porta aperta per uscire da una realtà estremamente chiusa. Ma la droga, il suo abuso, non sono altro che quel corto circuito che dal mondo ti porta fuori e poi ti riporta dentro il mondo, nel suo posto più buio, più lontano da ogni riscatto e da ogni rivalsa. 

A questo punto, Caligari sembra dirci che le strade che si aprono sono due: da una parte intraprendere il percorso di Vittorio, abbandonare le notti brave e trovarsi un lavoretto da onorare, da assurgere a simbolo della propria onestà e integrità, farsi una famiglia, cercare di tenere quella famiglia, per quanto possibile, lontana da ogni bruttura; o fare come Cesare, completare il ciclo di autodistruzione, perché solo lasciandosi distruggere in modo definitivo dal mondo si può uscire da ogni meccanismo fagocitante e preimpostato. Non si può non pensare a Pasolini - con cui Caligari lavorò - alle sue borgate e, soprattutto, al suo Accattone. Pasolini costruì una figura profondamente fisica, che lottava col corpo e col sangue contro ogni struttura della società. Non lavorava, non faceva nulla, sbraitava, si tuffava nel Tevere da altezze impensabili, sfrecciava con la vespa alla ricerca di una libertà inesistente. Mai piegatosi al mondo e alle sue regole, Accattone trova la vera pace solo nella morte, estremo atto di ribellione e rivoluzione - un po’ un Gesù Cristo dei nostri tempi, che trova solo nella morte il significato della sua esistenza di rivoluzionario. Per Pasolini, la periferia, le borgate romane erano l'unico luogo in cui la vita vera, senza sovrastrutture create dalla cultura chic del centro, si agitava sul serio. Quando notò che anche gli uomini di borgata stavano venendo contagiati dai modi del consumismo capitalista, si rivolse ad altre periferie, quelle del terzo mondo, dove, secondo il regista, ancora si respirava vita vera, vitalità, vitalismo.
Se Vittorio tenta una fuga dalla periferia e si inserisce nel ciclo produttivo lavoro-famiglia in cui tutti gli animali sociali si ritrovano, Cesare fugge dalla periferia morendo. E, in definitiva, non vi è alcuna via di fuga. Ogni fuga dal mondo così come lo conosciamo noi oggi, dalle sue regole, è solo un’illusione. 
E veniamo al finale - l’ultimissima inquadratura - dove il genio di Caligari ci mostra un bambino appena nato, figlio di Cesare. Come cogliere tale immagine, così sacra, così profana a un tempo, una piccola vita, pura e ingenua, che si agita tra i muri abbrutiti e ammuffiti di una periferia?
C’è chi vi ha letto una totale assenza di speranza: il mondo si perpetua con le sue regole e la nascita di una nuova vita in quel contesto altro non è che il segno di un ripetersi di tutto ciò che abbiamo già visto. Il che ha molto senso, per come abbiamo letto fin qui l’epopea di Caligari in relazione a Pasolini.

Ma ci sono persone che nulla sanno di tutto ciò che ho scritto, che non conoscono la filosofia dietro l’estetica cinematografica italiana degli ultimi sessanta anni, ci sono persone che leggono il film più con la pancia che con la testa. Vedere quel bambino, in fondo, sul finale di un film che ti lacera a ogni inquadratura, è una vera e propria boccata d’aria fresca. Speranza per il futuro. Per una vita diversa. Ho alternato le due letture, quella fatta con la testa di chi il cinema l’ha studiato e quella fatta con la pancia: sia perché quando ho visto il film, avevo da poco partorito, sia perché mi sono ritrovata a provare lo stesso senso di speranza e rivalsa di cui spesso investo i miei alunni che rischiano di perdersi. E di ragazzi che rischiano di perdersi, che la periferia ce l’hanno fuori e dentro, ne ho visti parecchi. Ho visto chi si è perso e  chi, invece, è tornato indietro dopo aver toccato il fondo e avere iniziato a scavare. Li ho visti riprendere in mano la propria vita e fare piccoli, grandi progetti di vita che sembravano sì, montagne da scalare ma anche montagne piene di promesse e speranze. Certo: un Caligari ci direbbe che l’unico modo per uscire da un mondo che ti fuma e ti consuma come se tu fossi la sua droga è entrare nei meccanismi del mondo che ti consumerà in altro modo, con il lavoro, con i suoi orari, dando a te un valore che corrisponde al solo denaro, alla grandezza della casa che hai o alla finta spensieratezza con cui spenderai i soldi per andare a fare quella vacanza a cui parteciperanno tutti. È vero, lo so. Caligari ha pienamente ragione. Ma un mondo diverso ancora non esiste. Tendiamo tutti a ripeterci e a ripetere schemi e a essere fatti con lo stampino anche quando ci atteggiamo ad outsider. Forse, però, un piccolo spiraglio c’è. È  non fare le cose automaticamente, ma farle analizzando tutto ciò che ci circonda, capendo, cercando di essere il più veri, schietti, sinceri, reali possibile: solo così, cogliendo la realtà e comprendendola al tempo stesso, come se stessimo costruendo un’immane opera d’arte, potremmo forse dire di aver preso i meccanismi del mondo e di averli piegati a nostro piacimento. 

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