Stati d'animo. Gli addii. Quelli che vanno. Quelli che restano
Nel
1911 Umberto Boccioni realizza due versioni della stessa opera. È
la serie degli Stati d'animo. Gli addii. Quelli che vanno.
Quelli che restano. La prima versione è
strettamente
futurista, la seconda nasce dopo che l'artista ha conosciuto le opere
dei cubisti. Ma il punto non cambia. Futurista o cubofuturista,
Boccioni ha sentito il bisogno di analizzare più
volte
il concetto di partenza, di addio, di stasi, di movimento. Il
soggetto è il
medesimo. Figure ignote sono sulla banchina di una stazione. Il treno
sbuffa. Qualcuno saluta e rimane sulla banchina a guardare quel treno
allontanarsi; qualcun altro monta sul treno e si allontana.
Gli addii, 1911, prima versione |
Gli addii, 1911, seconda versione |
Ne Gli addii le persone si abbracciano, strette in un vortice che sta per
sgretolarsi. È quel
cerchio perfetto che si crea quando ci si stringe alla persona cara.
In quella stretta si sente il calore dell'altro e si avvertono i
ricordi, si cerca di trattenerli, si teme che sfuggano. Ci si separa.
Ci si guarda negli occhi. Un ultimo sbuffo del treno, il carbone
invade la stazione, bisogna salire.
Quelli che vanno, 1911, prima versione |
Quelli che vanno, 1911, seconda versione |
Quelli che vanno sono linee oblique che attraversano la tela come saette, come fulmini. Quelli
che vanno, sembra dirci Boccioni, vanno sempre, sono proiettati in
avanti, sono presente e già futuro.
Quelli che vanno sono l'automobile che sfreccia senza freni nella
nuova città elettrica
e che solo contro un muro o sul fondo di un burrone può
fermarsi.
Quelli che vanno sono come quello smilzo di Antonio - Sant'Elia - il
ventottenne architetto del futuro, rimasto eterno ventottenne ed
eterno futuro dopo che un proiettile futurista, in trincea, gli ha
centrato la fronte.
Quelli che restano, 1911, prima versione |
Quelli che restano, 1911, seconda versione |
Quelli che restano sulla banchina sono linee
dritte o ondulate, da su a giù,
impossibile andare avanti, impensabile tornare indietro. Quelli che
vanno sembrano volare. Quelli che restano sono pressati dalla forza
di gravità,
piantati a terra, immobili, sofferenti. Ma quelli che vanno sono già
morte.
Quelli che restano avvertono tutto il peso della vita. In
un limbo, incapaci -
ma non è detto
- di qualsiasi movimento.
Movimento.
Questa è la
parola giusta.
Quando,
nei primi Manifesti, i Futuristi gridarono la loro voglia di futuro,
lo facero prendendosela con un'Italia che, appena nata, era già
vecchia.
I Futuristi volevano bruciare i musei e distruggere il chiaro di
luna, se la prendevano con le cascanti attrici dei melodrammi più
zuccherosi
e i nozionisti pronti a scambiare per cultura un vuoto elenco di
codici. Ma quello dei futuristi non era terrorismo. Non dobbiamo
prendere alla lettera quello che dicevano. Dobbiamo considerarlo
metaforico. Tutto un discorso di movimento. Sapevano bene che la
cultura italiana era immobile. Da secoli. Erano ben consapevoli che
la cultura italiana non coltivava nulla. Prendersela col museo non
era troppo diverso da quella che poi sarebbe stata la provocazione
Dada: attaccare il luogo della contemplazione-senza-capire
significava asserire che l'Arte, per i più,
altro non era che qualcosa da guardare distrattamente, giudicare
bella solo per il nome, da dimenticare al quadro successivo. Qualcosa
di incomprensibile. Sarà capitato
a tutti di fare il turista dell'ultim'ora - che bello il Colosseo - e
non avere gli strumenti per capirlo. Ma se non si capisce il museo,
perché ci
si adegua, perché lo
si giudica bello? Solo perché lo
fanno tutti? Ecco. Il movimento. Il ragionamento. Guardare all'Italia
approfondendone ogni lato, sviscerarla, avendo il coraggio di andare
a fondo. E di cambiare.
Il
movimento. Non è solo
quello fisico. Per Boccioni non era movimento fisico. Non era solo
quello a bordo dell'automobile. Tanto è
vero
che Umberto fu il più emotivo
e drammatico dei primi futuristi. Per lui Movimento era sua Madre,
ritratta, scomposta e ricomposta infinite volte, chiamata Materia, un
corpo immobile eppure dinamico - è
quello
che gli ha dato la vita.
E
allora, se Gli addii sono un vortice di ricordi ed emozioni stretti
in un abbraccio, chi e cosa sono quelli che vanno e quelli che
restano? Sono un punto di vista. Il treno è
solo
una metafora. Il treno è dentro
di noi. C'è chi
sale davvero su quel treno, va via eppure resta attaccato a ciò
che si
è lasciato
dietro. E c'è chi
resta sulla banchina. Fuori immobile e dentro un continuo agitarsi di
sogni, paure, ansie, previsioni continuamente disattese e improvvise
manifestazioni di vita. Quelli che vanno, vanno così
veloci
che non vedono quasi nulla e per vedere avrebbero bisogno di
fermarsi. Quelli che restano vedono tutto, se ne stanno lì
a farsi
trafiggere, li vedi fermi, fragili, una piccola onda di tono su tono,
eppure cambiano, evolvono, la vita li attraversa, li travolge - la
vita, la fermano.
Del
resto, se i fermi nel fisico ma non nell'anima non fossero stati
davvero in movimento, Boccioni non avrebbe perso tempo ad
analizzarli. Boccioni, tutta la vita, ha cercato il movimento in ciò
che è
immobile,
ha trovato il movimento in ciò che
è fermo.
L'opera d'arte. Perché non
il cinema, perché non
la musica. La pittura. La scultura, quanto di più
pesante
ci sia. Il bronzo imponente delle Forme uniche. Un uomo che, fermo,
si muove. Che affronta un'atmosfera spessa come un muro e una gravità
pesante
come un macigno. Fermo, ma evolve, perché
il suo
corpo si deforma.
Ci
si trova in un posto e l'anno dopo si è
sempre
nello stesso posto eppure tutto è
cambiato.
Boccioni
lo sapeva. Tutto si muove, anche quando sembra di stare fermi. La
vita si muove, la storia si muove. Tutti vanno, tutti restano. A
volte si è consapevoli
di andare e si dice addio, ci si dice addio. Il più
delle
volte non si comprende il movimento e il vortice dell'addio serve
solo a fermare un attimo di vita - che altrimenti svanirebbe nel
flusso cangiante e irrefrenabile dei ricordi.
Commenti
Penso che dal vivo rendano ancora di più il senso di movimento di cui parli. I vortici, la velocità, il futuro: sono le emozioni che passano attraverso questi dipinti e che li rendono dei capolavori!