La maternità è una cosa semplice - parte terza


Maternità significa anche Paternità.
Non ci sono figli biologici senza due esseri umani. Che purtroppo non hanno lo stesso ruolo in gravidanza. Spesso ci siamo chiesti perché noi uomini non coviamo in egual misura un uovo gigante, magari messo al caldo nell’armadio o davanti alla finestra. 
E, quindi, siamo costretti a ragionare per differenze.

IL PAPÀ

Il papà non è la mamma. Purtroppo, a malincuore, dobbiamo affermare che il genitore maschio ha un ruolo marginalissimo, perché non cova l’esserino. Fino a qualche decennio fa i papà agivano con tutto il disinteresse possibile nei confronti della gravidanza. Oggi, per fortuna, c’è una partecipazione non indifferente. Non tutti partecipano allo stesso modo. Occorre che vi sia una certa indole, un certo carattere, una certa sensibilità. 
Il mio Due - o il mio Uno - ha vissuto l’attesa della paternità quasi fosse egli stesso la madre incinta. A volte con un’apprensione che nemmeno apparteneva a me, che ero la diretta interessata. Forse, noi donne, dovendo portare avanti la gravidanza, siamo programmate per arrivare solo fino ad una certa dose di preoccupazione e ansia. Per questo, anche nei casi in cui sarei andata nel panico se non fossi stata incinta, ho mantenuto un certo controllo. 
Lui no. Lui ha preso tutte le preoccupazioni materne e paterne su di sé. Ha tentato di controllarle con lo studio e l’informazione, girando a destra e a sinistra per medici, ostetriche, libri e sciamani. Si è caricato addosso l’impressione del dolore che avrei provato, ha trattenuto il respiro alle ecografie, ha retto alle analisi del sangue… insomma. Ha fatto la mamma. 
Chapeau.
Del resto, credo, non è affatto facile essere papà. Nel senso: non è facile nemmeno essere mamme, ma le mamme hanno il vantaggio di portarsi dentro l’esserino sin dall’inizio, con esso creano subito un legame indissolubile, viscerale. Non è scontato per un papà creare quel legame carnale con il figlio, pur toccando la pancia e, spesso, specie nei primissimi mesi di gravidanza, non sentendo nulla. È pur vero che la paternità è costellata di elementi che le mamme, così attente a sopravvivere alle nausee, al mal di schiena e all’insonnia, non possono godersi. 
Il papà, in poche parole, va in brodo di giuggiole. Immagina il nascituro, lo immagina già vestito, magari con i boccoli, con un particolare colore d’occhi, lo immagina mentre assieme giocano alla PlayStation o mentre giocano a tombola. Lo immagina nel corso di qualche vacanza o in una giornata al mare, al ristorante, a fare una scampagnata. 
Il papà, quello che vive la cosa con adeguata se non esacerbante partecipazione, è la parte creativa, immaginifica e, in fondo, leggera della coppia. 

E POI CI SEI TU: LA MAMMA

Esatto, poi ci sei tu. 
La gravidanza non è un idillio. Affatto. Perché in primis sei un corpo. Mai come durante i fatidici nove mesi, un essere umano femmina sente di essere un corpo.
Perché l’esserino occupa sempre più spazio nel tuo ventre e tu, col tuo ventre, devi proteggerlo. Non solo: devi proteggerlo con il tuo sangue, il tuo respiro, i tuoi liquidi.
Iniziamo con il minare qualche certezza. Noi donne siamo programmate per la maternità, ma è una programmazione con numerosi bug. Nulla scorre in modo naturale.
Se l’esserino è dentro di te, allora qualcosa che prima era naturalmente dentro di te, per fare spazio, per forza di cose dovrà uscire: che sia andare in bagno ottordicimila volte al giorno o buttar fuori dallo stomaco tutto quello che hai mangiato. A volte anche prima di averlo mangiato. Basta sentirne l’odore. 
Il sangue comincerà a pompare all’impazzata. Avrai il cuore a mille. Le gambe gonfie. Una sete infinita. E dopo tre passi ti sembrerà di aver corso una maratona di mille chilometri. 
Poi ci sono le analisi, infinite. Un tempo le gravidanze erano completamente al buio, quello che dovevi sapere lo sapevi due minuti dopo il parto. Ora con largo anticipo sai quanto pesa il tuo esserino e, con le immagini della morfologica, puoi già scrutare i lineamenti e giocare a capire a chi somiglia di più. Le analisi sono la fonte più copiosa di ansie e angosce notturne. Ma, dall’altra sponda della gravidanza, ci sono le tue sensazioni. Quando ti dicono che il tuo esserino è troppo piccolo e potrebbe avere qualche fatica in più degli altri a nascere, ti senti colpita, attaccata. Tuttavia, dentro di te, l’esserino fa il diavolo a quattro e sembra avere particolarmente fretta di uscire. E questo ti tranquillizza.

Sfatiamo qualche altro mito: il parto.
Il parto è il momento clou dei nove mesi della tua esistenza. Pensi solo a quello e, anche quando non ci pensi, il tuo subconscio ci pensa. Ti prepari. Ma non sai come sarà. Io ho sviluppato non paura, non apprensione, ma curiosità. Mossa dal motto “tanto da qualche parte dovrà pur uscire”, ero estremamente curiosa di sapere cosa e come sarebbe accaduto. 
Per essere sicura, però, non sapendo come avrei reagito a quello che viene definito il dolore più intenso che si possa provare, ho fatto la visita per l’anestesia peridurale. Poiché ho la fobia degli aghi e poiché l’anestesista mi aveva palpato alla base della schiena, luogo particolarmente impressionabile per me, mi sono data un limite. Nel momento in cui il dolore mi farà uscire fuori di testa, chiederò l’epidurale. Che, all’incirca, può essere fatta entro i sette centimetri di dilatazione. Oltre, non ha più molto senso. 
Il punto è che non sono riuscita ad andare fuori di testa: come diceva il ginecologo, il dolore del travaglio è uno dei più produttivi che esista. Sentire quel dolore ti aiuta a partorire. 
Sono entrata in sala parto a trentotto settimane, con una situazione simile a quella di un secondo figlio da sfornare, strada ben spianata, anche se di figlio per me questo è il primo. 
Due giorni prima avevo chiesto al medico se esistesse una genetica dei parti precipitosi: da mia nonna a mia madre, passando per mia zia, tutti i parti di famiglia sulla linea materna sono stati veloci, in alcuni casi velocissimi, senza avvisaglie, e tutti prima delle 40 settimane. Il ginecologo mi risponde forse un po’ alterato che no, non c’è uno studio su questa roba, che forse ci sarà tra duecento anni o forse mai. 
Entro in sala parto con un dolore sciocco. Mio marito con me - forse lui prova più dolore di me. Mangio, rido, scherzo, insieme balliamo. Passeggiamo: scruto a fondo i corridoi della sala parto, guardo l’albero della vita appeso al muro, dai cui rami pendono le foto dei ginecologi e delle ostetriche. La musica in filodiffusione ritma le mie passeggiate. Dalle altre sale travaglio socchiuse le altre partorienti con ago cannula opportunamente inserito sono piegate in due e soffrono, boccheggiano, urlicchiano. Sono lì da prima di me e io soffro per loro, perché, penso, tutto questo tempo a soffrire così, no, proprio no. La musica in filodiffusione serve a coprire le urla? Chiedo all’ostetrica, che ride. Dalla musica in filodiffusione esce Bruno Mars, che si impossessa di me - e inizio a cantare, con tanto di risate da lacrime di mio marito. Pseudo-travaglio sciocco: il monitoraggio segna alla voce “toco” un centopercento che dovrebbe farmi svenire, ma io canto Bruno Mars. 
Si presenta in borghese il mio ginecologo. Ondeggia mani in tasca sulle scarpe da ginnastica e mi guarda. Esordisce con una delle sue solite frasi da cult: “Lo so che ci odi perché siamo uomini e non partoriamo”. Rispondo che non odio nessuno, siamo solo programmati diversamente. O forse non lo dico. O forse nel rifarmi il film del mio parto penso che una risposta del genere sarebbe in una sceneggiatura da Oscar, con i tempi giusti. Odio molto di più il ginecologo e mio marito quando mi costringono sulla palla medica e loro due amabilmente a parlare di Netflix, Sky, Gomorra e Suburra. Di film, serie tv e altre amenità che, confrontate con un travaglio, ecco, sì, stimolano l’odio nei confronti del mondo maschile. Il medico se ne va, non prima di avermi lasciato altre due o tre perle delle sue: “il dolore sarà più intenso”, “secondo me ce la fai senza anestesia”, “per la nottata forse ce la fai” e, soprattutto, un “non farmi fare brutta figura”. 

Ehi. Ma per chi mi avete preso. Io, io che sono sempre stata la tonta, la goffa, la taciturna, la troppo pensierosa, lo yeti di cui tutti avete avuto forse un’ingiustificata paura - un nervo scoperto, sì, forse sin troppo sensibile, emotiva, rabbiosa e, a volte, così asociale da risultare ingiustamente stronza. Nonostante questo so di aver costruito qualcosa nella mia vita, un amore, una casa, una famiglia, un lavoro, una personalità. In barba a tutti quelli che mi hanno presa solo per una tonta, goffa, taciturna e poco interessante persona.
Io non farò fare brutta figura a nessuno: perché per prima cosa non farò brutta figura con me. Come ho sempre fatto. 

Insomma, gente, per farla breve. Come per ogni parto, non c’è nulla di prevedibile.
Le contrazioni all’improvviso spariscono, niente dolori, nulla che possa essere monitorato. L’ostetrica mi vuole rimandare in camera. Se ne riparla domattina. Domattina? Inizio a scocciarmi. Saluta i tuoi. Ma anche no, penso. Mi sale un’impazienza che non mi appartiene. Perché sono sempre stata molto, troppo lenta e pensierosa nelle cose. E ora invece ho fretta. 
Saluta i tuoi, falli tornare domani, mi dicono di nuovo in coro ostetrica e ginecologa. 
No, cavolo. No. L’impazienza si impossessa di me, ma non è mia. È di qualcun altro. So di chi è. È dell’esserino dentro di me. Che nel giro di quindici minuti ribalta la situazione: e non c’è scienza che tenga. Per farla ancora più breve, gente: passo dal nulla al dolore dell’espulsione. In un modo così improvviso e precipitoso che nessuno in sala parto vuole credermi. Allora urlo. FATEMI QUALCOSA! 
Ma c’è poco da fare. L’esserino impaziente mi dice di spingere. E in dieci minuti è fuori. Così. 
È stato tutto talmente veloce che mio marito non ha avuto tempo di impressionarsi o capire o mettere addosso la teletta verde. Si improvvisa ginecologo, ostetrico, infermiere e mi aiuta a far uscire in due-minuti-due l’esserino. 
Che sbraccia come se dovesse vincere la finale olimpica dei cinquanta farfalla. 
L’unica trentenne al mondo che nel duemiladiciassette partorisce senza peridurale.

Nessuno ci capisce granché. 
Alla fine anche il mio parto è stato precipitoso come quello di mia nonna, mia zia, mia madre. Caro medico, io credo che una genetica ci sia. Eccome. 

Penso, in definitiva, che la maternità sia davvero una cosa semplice: purché possa essere solo mamma-pancia-papà. La maternità diventa la cosa più difficile del mondo perché intorno c’è tanta, troppa gente, troppo chiacchiericcio, troppe analisi, troppi numeri e, soprattutto, troppi numeri che tentano di inserirti in una media, dimenticando che ogni essere umano è unico e procede per quel che è, non per quello che sono gli altri. Senza dubbio la gravidanza e il post-parto sono costellati di bug non perfezionabili: per essere una cosa naturale, ci sono troppe cose difficili. Ma evidentemente naturale significa dolore. Il dolore non sempre è in negativo, ci sono anche dolori positivi. Credo che i dolori positivi, nel caos dell’esistenza umana, siano essenzialmente due: il dolore che viene sublimato nell’arte. E il dolore che viene sublimato nella vita - nel dare la vita.


E, adesso, viene davvero il difficile: essere in grado di prendere per mano l’esserino e di accompagnare la sua vita sui sentieri più giusti, più responsabili, rendendo onore al regalo che abbiamo ricevuto: ora e per sempre. 

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