PROIEZIONI NOTTURNE - I pugni in tasca, Babel

Due film molto diversi tra loro. I pugni in tasca, di Marco Bellocchio, Italia, 1965. E Babel, di Alejandro Iñarritu, USA, Messico, Giappone, 2006. Pur nella loro evidente lontananza, si può riscontrare un piccolo punto di contatto che mi ha dato molto da riflettere.

Entrambi i film hanno al centro del loro tema il legame familiare. I risultati a cui giungono sono suggestivi. Il legame familiare è trattato in modo completamente differente sia per come i due registi lo intendono, sia per la forma con cui lo presentano.

I pugni in tasca è il primo film di Bellocchio. Il giovane regista esordisce con un lungometraggio molto inquietante, come inquietanti sono i personaggi che lo animano. Si tratta di una famiglia che, nella sua staticità, è molto particolare. La madre è anziana e cieca. Il fratello maggiore, Augusto, vuole semplicemente andarsene di casa e sposarsi: è un personaggio tanto mediocre quanto lo è la vita che desidera. Giulia è attratta dalla morbosità del sesso, mostrando una certa propensione all'incesto. Alessandro – il protagonista indiscusso del film, interpretato da un diabolico Lou Castel – è completamente fuori controllo: affetto da una strana malattia, lascia che il germe della follia prenda il sopravvento nella sua testa. E infine Leone: buonissimo e silenzioso, l'unico con un evidente ritardo mentale. La casa in cui tali personaggi vivono porta i segni dell'Ottocento e dei primi del Novecento: arredamento pesante, immense fotografie degli avi, pavimenti e mura scuri, poca luce. Tutti si sentono stretti in questa situazione, ma Ale è quello che decide di liberarsi davvero. E lo fa nel modo meno conforme alla società che possa esistere. Ha un piano per eliminare tutto ciò che si pone come ostacolo alla libertà inconsulta che lo caratterizza: libertà che non è solo sul piano del pensiero o delle azioni, ma anche su quello fisico. La fisicità di Ale è inquietante e malsana, scevra da ogni gesto socialmente accettato. Il suo riso esplode incontrollato, gli occhi impressionano e atterriscono; i suoi gesti sono plateali, strambi, impressionanti. Spesso sono semplici, ma di una semplicità così surreale e di un dissacrante così terribile che non si può non inorridire. I primi due video che propongo mostrano proprio la libertà da ogni regola e da ogni morale di Ale. L'ultimo che metto si riferisce invece alla fisicità incontrollata del personaggio: si tratta della meravigliosa scena finale, quindi, se non avete visto il film e volete vederlo per intero, non cliccate.


Il bagno di Leone

La madre

Scena finale


Babel fa un'operazione chiara sul piano del plot, ma molto complessa su quello della forma. Iñarritu crea effettivamente una babele di linguaggi: in primis le lingue che adopera, l'inglese, l'arabo, lo spagnolo, il giapponese e il linguaggio dei sordomuti. In secondo luogo è la forma del film (e in particolar modo il montaggio) ad essere un vero e proprio caos: i vari episodi non sono presentati in sequenza lineare, ma proseguono per salti logici e temporali. Tutti gli episodi sono tra loro uniti da piccoli particolari e quello che deve fare lo spettatore è mettere in ordine i “link”. Sembra infatti che, per mettere in relazione le singole storie del film, Iñarritu riproponga in qualche modo la babele di collegamenti ipertestuali che ogni giorno utilizziamo. Tuttavia, in questo caos, ciò che Iñarritu persegue è un linguaggio universale e in qualche modo silenzioso: quello dell'amore tra padre e figlio. Iñarritu insiste parecchio con questo tema. Basti già guardare 21 grammi, ma anche la dedica che fa ai suoi figli alla fine di Babel. Tutti gli episodi del film sono giocati sul rapporto tra genitore e figlio, rapporto che muove ogni evento. Tuttavia soltanto in un episodio si raggiunge una sorta di pace familiare, dopo aver sofferto grandi dolori e incomprensioni: è l'episodio giapponese, quello che chiude il film. Il padre abbraccia la figlia nuda sul terrazzo dell'attico in cui vivono, sulla cima di un alto grattacielo. È una moderna torre di Babele. I due finalmente trovano un punto di contatto: non si parlano eppure comunicano attraverso un gesto ben preciso, lo stringersi l'un l'altro. Non c'è nessuna sovrastruttura qui: non ci sono parole, la musica, tranquilla, quasi silenziosa, sembra una nenia; non c'è nessun linguaggio, nessuna finzione creata dall'uomo. Solo il silenzio, quello in cui avviene l'abbraccio. Con una carrellata all'indietro, la macchina da presa si allontana dai due personaggi e ci mostra l'alto di una Tokyo silente e illuminata dalle singole case. Qui, Iñarritu fa apparire la dedica ai suoi figli, “le luci più luminose nella notte più nera”.


I due film propongono due azioni contrarie. I pugni in tasca parte da una compostezza formale soffocante, dalla compostezza soffocante della Famiglia, per giungere al caos e alla disgregazione di quest'ultima. Babel ci sballotta nel caos mondiale di un'infinità di linguaggi e relazioni per arrivare alla pace totale, in cima al mondo, espletata da un abbraccio intenso e senza parole tra padre e figlia. Mentre la sequenza finale de I pugni in tasca ci mostra l'eccesso, dato dalla deflagrazione della musica e del corpo di Ale, in quella finale di Babel la calma e la tranquillità la fanno da padrone.

Eppure il problema è il medesimo: si tratta di trovare ciò che lega una persona alle proprie origini familiari. Si tratta di vedere ciò che è importante davvero. Senza dubbio i due film risentono pesantemente dell'epoca in cui sono stati girati. Bellocchio si situa nel periodo in cui in Italia sta cambiando tutto – o almeno così sembrava e così si voleva – quando si manifesta il desiderio di liberarsi da una società sin troppo basata su un tipo monolitico di famiglia. Iñarritu invece si trova a fare il suo film nell'epoca delle nuove tecnologie e della comunicazione ad ogni costo, della globalizzazione, del terrorismo e di Internet. Il rischio è che tutto esploda senza lasciare più legami veri. In Babel non si parla di famiglia intesa in senso stretto, ma di quel legame autentico che sopravvive indipendentemente dal tipo di famiglia che si ha.

Tuttavia, in entrambi i casi, è evidente che a distruggere un legame concorrono l'incomprensione e certi istinti centrifughi. Per Iñarritu centrifughe sono la lingua e l'incomunicabilità che impediscono di parlare il vero linguaggio tra uomini. Per Bellocchio Ale è centrifugo, nel momento in cui la sua voglia di libera espressione fa esplodere un legame familiare vuoto, fatto solo di forma.

Quello che si cerca però nei due film è l'autenticità. Bisogna liberarsi di certi gioghi, di qualunque tipo, politici, sociali, religiosi o morali. Liberandosi di questi verrà fuori la verità: sia essa una famiglia tenuta in piedi solo da vuote regole, sia esso il legame tra padre e figlio, quello sanguigno, viscerale, senza orpelli né regole. L'unico che tenga davvero. Iñarritu sembra dirci che la sopravvivenza del singolo individuo è garantita solo dall'autenticità del legame con un altro; se questa autenticità manca e se l'individuo è solo, per esso c'è solo l'autodistruzione: la via che intraprende Ale.

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