Munch. Il grido interiore - Roma, Palazzo Bonaparte, fino al 2 giugno 2025
Quello che si agita nella nostra anima può prendere forma? Sì, ma non è detto che quella forma valga per tutti. Munch può piacere, può essere odiato, amato alla follia solo perché famoso o ridotto all’icona commerciale di una faccetta deformata sempre più simpatica: e tuttavia Munch è e sarà sempre un artista vero, in grado di comunicare le forme più inquiete o più misteriose dell’interiorità.
La mostra a Palazzo Bonaparte, Munch. Il grido interiore, in scena fino al 2 giugno 2025, è allestita per restituire al visitatore un’esperienza. Luci spente, illuminazione solo sulle opere, musica, sala immersiva, pannelli tattili che permettono di giocare con i colori, piccole aree per colorare con la cera su supporto di legno. Tutto sembrerebbe essere - e forse lo è - volto a rendere la figura di Munch facilmente fruibile. Questa pare essere la linea di molti allestimenti, rivolti più a un pubblico vasto e che di arte sa poco e meno ai critici, ai filologi, ai sedicenti esperti. È un approccio che a molti fa storcere il naso, ma forse è anche l’approccio giusto - seppur non sempre - se si vuole divulgare l’arte.
Stavolta, come non mai, è stato necessario costruire attorno ai dipinti in mostra l’esperienza di cui sopra, un’ambiente per l’anima in cui calarsi con malinconia e dolcezza: il rischio era quello, altrimenti, di ridurre l’artista all’emoticon che usiamo nelle nostre chat. Il rischio era quello di storcere la bocca di fronte alla copia meno famosa e meno “attraente” (passatemi il termine) de L’urlo.
La scommessa è stata quella di portare alla ribalta il Munch meno conosciuto eppure più aderente al suo percorso. E l’esperienza creata per l’allestimento aiuta moltissimo.
Il Munch inaspettato che il visitatore meno avvezzo troverà è il Munch dei colori sgargianti e delle macchie spiraliformi che si avviluppano in contrasti accesi, a volte quasi astratti, a volte malinconici, a volte briosi e pieni di vita. Troverà il Munch che meno deforma e più rimane aderente alla forma, pur dando ampio spazio alle sensazioni luminose (di estrema bellezza la piccola sedia a dondolo che apre la mostra). Troverà un piccolo urlo in bianco e nero. Nella stanza più grande, quella dedicata a una sola opera, quella con la musica emotiva e penetrante che si ripete in loop, troverà Disperazione: lì per lì apparirà come una prova de L’Urlo (il fondale, l’ambiente sono i medesimi); ma in primo piano ecco che campeggia la figura di un uomo dai tratti ancora riconoscibili, un uomo che non si deforma per l’urlo della Natura ma che si chiude nel buio che ha dentro di sé, magistralmente narrato dalla giacca di un nero profondissimo. Qui ci si siede, si ascolta la musica, al buio, si osservano le spalle calate e gli occhi chiusi dell’uomo, che non si dispera in modo teatrale, ma che esprime timidamente e profondamente un sentimento indicibile. Chi è predisposto capirà. Chi non è avvezzo al Munch meno pubblicitario, sentirà che qualche nota si incrinerà e che nuove emozioni e nuove intuizioni arriveranno.
L’operazione, a mio avviso, riesce. L’atmosfera che si respira nelle sale di Palazzo Bonaparte è quasi sacrale. A volte c’è il silenzio più tombale; altre, arriva da lontano, in punta di piedi, un leggero pianoforte accompagnato da archi. Si entra in un luogo sacro che non è una chiesa, ma è il luogo più intimo di Edvard. Lì capiamo il collegamento tra la motivazione, il gesto e l’opera d’arte finale. Il rapporto tra la forma e la sostanza. Tra le parole e le immagini.
Vorrei poter dire che si comprende che l’arte è molto più di una collezione di figurine definite bellissime su un libro; che l’arte spesso è più del giudizio, che è molto di più delle parole che si possono spendere in un’aula per trasmettere conoscenza. L’opera d’arte racconta qualcosa e quel qualcosa andrebbe colto - possibilmente da tutti - solo osservando l’opera. Un’opera dirà più di altre, solo con un battito di ciglia e leggeri movimenti dello sguardo. È questo, secondo me, il primo approccio che bisognerebbe avere con ogni forma d’arte: un piccolo dialogo intimo fatto di sguardi tra noi e l’opera. La mostra di Munch lo permette: andate a osservare le piccole sgocciolature di colore raggrumate sulla tela, lì dentro c’è tutta l’arte.
Commenti