Ulisse
Mentre a scuola, sulle note di Mariah Carey, si consuma la festa di Natale, con un adolescentissimo mix di pandoro e pop corn, mi ritrovo in una bolla di Natali passati che mi targhetta qua e là. Non è mai semplice il Natale, perché a Natale si concentra tutta la nebulosa di ciò che sei e di ciò che sei stato; fai bilanci, ti guardi dentro e, a volte, è tutto così confuso e pesante che qualcuno non vede l’ora che le feste finiscano: questo perché Natale è soprattutto un periodo di riunione: e con quella riunione - o mancata riunione - devi fare i conti.
Del resto, non a caso, Dickens ha costruito un capolavoro su questo sentimento sfuggente. A Christmas Carol mi accompagna sin da quando ero bambina: una prima, estremamente stringata, versione illustrata entrò in casa mia quando avevo sette o otto anni, nei primi anni Novanta. Della storia ho sempre amato l’assurdo temporale che si crea in una sola notte: sembra battere sempre la stessa ora, ma dovrebbero essere notti o giorni diversi; Scrooge vede il suo presente, più epoche passate e un futuro oscuro, per svegliarsi poi il giorno dopo, come se il tempo non fosse mai passato. A Christmas Carol, trama horror e natalizia, è una storia in cui il senso di sé, della persona che si è diventati con il tempo e del posto che si occupa nel mondo è profondo e viscerale - guai a scambiarlo per una semplice fiaba natalizia.
Dentro di me, sento ancora profondamente di essere seduta al tavolo dei bambini, a Natale: sono al tavolo più piccolo, quello decentrato, magari incastrato in un angolo - tanto i bambini sono piccoli e ci stanno comunque. Era divertente stare con i propri cugini e ancora di più lo era passare al tavolo dei grandi per giocare a tombola. Poi sono entrata di diritto al tavolo dei grandi anche per mangiare - e ho mangiato da adulta con la leggerezza di chi trova le cose pronte in tavola, quelle leccornie che solo le nonne e solo in parte le mamme sanno fare.
Poi, un anno, a Natale, sono diventata madre. E lì il Natale non era più questione di essere bambina o adulta o a quale tavolo stare: la questione era trovare l’equilibrio giusto per la nostra creatura e quindi per tutti e tre. Dove si sta bene? Dove si è stati bambini? Al tavolo dedicato? O dove si mangia da adulti senza dover cucinare?
Ho capito che si sta bene dove ci si sente a casa.
Casa sono diventate improvvisamente le persone e quello che le persone sanno fare o sanno dire o sanno generare. Il mio Natale è diventato un compleanno, un capodanno e un nuovo inizio. Ho capito che gli inizi li decidiamo noi, in un giorno preciso, e che poi quell’inizio in realtà prosegue, in un continuo, portandosi dietro tutto ciò che è stato e dando al presente (del futuro non voglio parlare) una forma precisa: eccolo, tutto il significato del Canto di Dickens. Tutto si rinnova e si trasforma staccando e incollando nel presente pezzi del passato, che essi ci siano ancora o meno.
Questo è stato un anno duro. A tratti durissimo. E non so se questa severità sia ancora finita. Ma me la porto dietro e dentro, perché il Natale è un po’ la summa dell’anno. Quest’anno ci adatteremo alle assenze forti, di cui rimangono i ricordi vivi, i suoni o gli odori dei piatti che mai più potranno essere cucinati in quel modo, e ci adatteremo a presenze scomode, piccole zone sismiche e giganteschi astronauti, e al filo che cerchiamo di snodare per trovare il capo di tutto (se mai esiste).
Poche cose mi danno i brividi come l’arte. Ci sono stati giorni in cui la casa sembrava rifiutarci e, pur dentro, ci sentivamo sbattuti fuori. Ci sono stati giorni d’ospedale in cui tutto sembrava talmente un sogno da permettermi di mantenere un’inaspettata lucidità, che a tratti presenta il conto. Quando la vita ti attraversa, spesso non provi nulla o il rischio di non riuscire ad attraversare la tempesta c’è davvero. Ed è vero che si esce diversi. Migliori, peggiori, disincantati, non lo so. Più schietti, più veri, più trasparenti, grezzi, questo sì. In questa trasparenza, che si muove tra apparente freddezza e gelida lucidità, solo l’arte riesce a regalare brividi. Perché l’arte è l’espressione della creazione che si crea la prima volta, dell’esistenza assoluta, del nuovo che nasce: come un figlio.
Ulisse è probabilmente uno degli eroi più spocchiosi che siano mai esistiti. In modo elegante lo definiremmo tracotante; i greci direbbero ubristes. E proprio questo è l’enorme fascino di Ulisse: vuole tornare a casa - e lo fa con tutta la ubris possibile - ma è condannato a non tornarci. Vaga venti anni, col ricordo della moglie e del figlioletto, e quei venti anni diventano casa sua. Quello che lui fa per arrivare al suo porto sicuro è viaggiare, sempre, eternamente, tra mille pericoli. Più casa si allontana, più la sua voglia di tornarci smania e si dimena. Eppure, a volte, la verità è che l’approdo non lo troviamo mai, non perché non vogliamo, ma perché la vita ci sbalza da un lato all’altro proprio per il suo essere vita: qualcosa che si muove e muta in continuazione. I Franz Ferdinand, in una loro canzone, si sentono come Ulisse: e, seppur convinti di trovare una nuova strada, sono consapevoli che non riusciranno mai a tornare a casa:
Ulysses
I found a new way
I found a new way, baby
La, la-la-la-la
Ulysses
I found a new way
I found a new way, baby
Oh... Oh, then suddenly you know
You're never goin' home
You're never, you're never
You're never, you're never
You're never, you're never
You're never goin' home
I White Lies, in Farewell to Fairground, dicono addio alla “fiera” che li ha tenuti impegnati per andare alla ricerca di altro, probabilmente quel sentimento di casa che esiste solo dentro di noi:
This place used to gleam
I'd see it in my hopeful dreams
Now I have to get away
We move towards the stars
And all that we touch becomes ours
Let's keep warm till it's day
Farewell to the fairground
These rides aren't working anymore
Goodbye to this dead town
Until the ice begins to thaw
We'll head south, just hold my hand now
I feel like I'm casting off my clothes
And I'm running through the snow
Towards the sunset
And I'm always with you
Keep on running
Keep, keep on running
There's no place like home
There's no place like home
Gli AFI intitolano una delle loro canzoni più disperate …but home is nowhere. Raccontano il momento in cui l’individuo va in pezzi, non si riconosce più, non trova se stesso, si sente diverso… e casa è da nessuna parte:
I lay strewn across the floor, can't solve this puzzle
Everyday, another small piece can't be found
I lay strewn across the floor, pieced up in sorrow
The pieces are lost, these pieces don't fit
Pieced together incomplete and empty
Chiaro è che la questione della casa è una questione non tangibile, non è fatta di muri, di mutui, di traslochi e capitolati: è solo questione di dove si sta bene, nel più profondo di noi. A casa, quella fatta di mattoni, si può anche non tornare, perché a volte capita, ma casa, ecco, ce la portiamo dentro. Un po’ come tante piccole lumache che strisciano lente, invisibili, appesantite dalla propria chiocciola: perché portarsi dietro casa significa portarsi un bagaglio di ricordi, sensazioni, frammenti di memoria che si mescolano a sogni, speranze, giudizi, litigate, abbracci, dialetti, cibi, separazioni e ritorni. Tutto pesa, ma tutto si porta con grazia e con la consapevolezza che quel peso ci contraddistingue. Un peso che si arrotola eterno su se stesso, proprio come la spirale della chiocciola. Quel peso, bellissimo, sono le persone.
Da quel Natale in cui sono diventata mamma - in cui siamo diventati genitori - il pesetto dolce e accogliente che porto sopra è la mia casa preferita, anche quando la terra trema e bisogna abbandonarla per andare momentaneamente a galleggiare nello spazio. Su questa casa aggiungiamo esperienze, ricordi, tradizioni. I Natali passati diventano il Natale presente, che è una spirale di cose nuove e di cose andate, ma non andate del tutto. E ho capito che quei puntini di sospensione dopo una canzone che parla di un sé frantumato sono una speranza: con quel pesetto dolce, home si now-here, casa è ora qui, sempre con noi.
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