Lievito madre






Con l’avvedutezza di Nostradamus, poco dopo le scorse vacanze natalizie ho deciso di iniziare a fare il lievito madre liquido, il cosiddetto licoli. Ci avevo già provato a fine agosto, ma il crogiolo di batteri, farina, aria e acqua era morto miseramente - forse per aver usato un detersivo troppo aggressivo quando ho lavato il recipiente che lo conteneva. Ci avevo rinunciato: troppa cura, troppa acqua e farina buttate, almeno nei primi tempi di coltura. Ma a gennaio ho deciso di riprovarci, non so bene perché. Forse sentivo che il mondo sarebbe stato colto da una pandemia e, in quarantena, tutti avrebbero sviluppato abilità da panificatori, rastrellando intere confezioni di lievito di birra dai banchi del supermercato. Con il lievito madre non ho avuto problemi di approvvigionamento in questi mesi di lockdown. È bastato avere acqua e una farina forte di buona qualità.

Ma non è di questo che voglio parlare.
È del nome e tutto ciò che rappresenta. 

Il lievito in questione è appunto madre. Non ho studiato  perché o percome si chiami così a livello storico né scientifico. Ma so una cosa - la so dalla mia esperienza di coltivatrice di lievito. 

Il lievito madre viaggia tra barattoli di vetro, messi in dispensa, rintanati in un angolo del frigorifero. È  na magia frutto dell’incontro di farina, acqua e aria. Farina e acqua devono essere buone - ma anche e soprattutto l’aria. L’aria è quella che si respira in dispensa, in frigo, in casa. Il lievito madre trae ispirazione da ciò che ho disposto nell’armadio - altre farine in busta, legumi, pasta, pane già sfornato - o da ciò che ho in frigo - latte, uova, verdura, frutta. Più di qualità è l’aria dei propri armadi e del proprio frigorifero, migliore sarà l’ispirazione del lievito madre. Ciò che viene comprato e messo in dispensa o in frigo è frutto, a sua volta, di una scelta - della scelta di chi compra. La scelta, quindi, deve essere di qualità. Non solo per il lievito, ma principalmente per l’alimentazione di chi è in casa. L’uomo è ciò che mangia, diceva Feuerbach. Alimentare lo stomaco è alimentare anche lo spirito; meglio si mangia, meglio si sta. Meglio si cucina, meglio si sta in casa. Ciò che avviene in cucina è il riflesso degli umori della casa - e cucinare può essere un momento di relax, un momento di sfogo, un modo per destressarsi, un modo per curare la propria famiglia, sperimentazione, frustrazione e tanto altro. Nel lievito madre entra anche questo: l’u(a)more di chi cucina e della famiglia. Curare il lievito madre non è - per me - la moda del momento, anche perché mangio ciò che sforno e fare foto è praticamente impossibile. Curare il lievito madre significa tenere in un barattolo di vetro tutto il proprio mondo, osservarlo, capirlo, curarlo, eliminare il liquido in eccesso quando lo si è trascurato troppo e dargli ancora da mangiare, per coccolarlo, rinforzarlo, amarlo. Come ogni madre fa.

Commenti

Vele Ivy ha detto…
Che descrizione poetica :-)
Mia suocera è esperta di lievito madre, mi ha chiesto più volte se ne volevo un po', ma ho sempre rifiutato perché mi sembra troppo impegnativo da seguire. So, tuttavia, che prima o poi entrerò anch'io nel tunnel... e poi questo post mi ha fatto venire voglia di provare!
Veronica ha detto…
Sono contenta ^_^. Io pure ero super scettica, credevo fosse difficilissimo doverlo curare e usare negli impasti, invece è tutto molto semplice, più facile a farsi che a dirsi!