L'umanità ai tempi del Coronavirus



Avevo intenzione di continuare il mio viaggio cinematografico nelle periferie romane, proponendo la visione de La terra dell’abbastanza. Ma non posso fare finta di niente, perché il mondo che la nostra generazione conosceva è cambiato - sta cambiando - e dubito tornerà come prima. 
Ci troviamo di fronte ad un virus, che non distingue nazioni e persone.
Ci stupiamo per le guerre, gli attentati, le catastrofi naturali, le quali, tuttavia, nel racconto quotidiano vengono declinate con i topoi della tragedia o dell’horror, ma rimangono pur sempre catastrofi naturali. Il virus ci sconvolge, oggi, per la comunicazione iper veloce che ci rende vicini e perché la comunicazione dei social ci rende patinati. 
Ma forse non siamo di fronte a nulla di così nuovo. Non voglio passare per la prof secchiona di turno, ma conoscere ciò che è avvenuto in passato ci aiuta. Ciclicamente l’umanità, oltre che da guerre, è stata interessata da epidemie di varia natura. Per citarne tre, la peste del Trecento, la manzoniana peste seicentesca, la febbre spagnola concomitante con la Grande Guerra. Dalla nostra, oggi, noi abbiamo la conoscenza, l’igiene, un sistema sanitario sicuramente migliore di quello di settecento o cento anni fa. Non vorrei andare oltre questi pensieri: potrei dire che il mondo ogni tanto diffonde virus per uccidere ciò che non va e poi risollevarsi, una sorta di cura a una malattia. Questo è anche un aspetto che mi intimorisce e gli unici modi che ho per parlarne sono quelli mutuati dall’arte. 
Ci troviamo in un’atmosfera che è un po’ Contagion, un po’ The Purge, un po’ La notte dei morti viventi: i filmici post apocalittici ci piacciono tanto ed ecco che ci troviamo di fronte a un virus, a gente che ti guarda di sbieco perché potresti essere un infetto, a scenari urbani desolati, silenziosi e metafisici.

Un’altra sicurezza che ho è la casa. Io a casa ci resto, non esco di casa dall’ultimo giorno di scuola qui, il 4 marzo, la macchina è parcheggiata, abbandonata, dove l’ho lasciata sedici giorni fa. A casa sto bene - fatta la spesa, a casa ho tutto ciò di cui ho bisogno: pantofole, copertina, film, libri, serie tv, lavoro e famiglia. Il virus ha reso evidente che la vita reale - e non le foto sui social - è ciò di cui si ha bisogno, ma a molti manca il mondo là fuori - o  forse mancano solo le foto del mondo là fuori. Anche questo cambierà. Che ci si goda di più l’aria che il colore dell’aria attraverso un obiettivo. Non ce l’ho con le foto, ma con il surplus di esse, volte a descrivere una vita impostata, filtrata e patinata che non esiste. 

Un altro punto è il lavoro. Da un lato ci stiamo rendendo conto che tantissimi lavori possono essere effettuati a distanza e on line. Persino la scuola. In una settimana abbiamo creato classi virtuali e abbiamo iniziato a fare videolezioni. Preferisco tuttora la presenza in classe, ma al momento non riesco a vedere le potenzialità della classe online perché il cambiamento lo sto vivendo: forse tra un mese o più inizierò a capire. Di sicuro ora capisco che la classe online mette in evidenza il lavoro sommerso dei docenti: la preparazione delle lezioni, la labilità degli orari di servizio, mail che arrivano a tutte le ore, risposte, compiti consegnati, compiti visionati uno per uno. Non esiste un inizio e una fine. Vedo mio marito che lavora da casa - fa tutto un altro tipo di lavoro - e noto che lavora molto di più, lavora anche in quei frangenti che in un momento normale sarebbero equivalsi ai suoi spostamenti in automobile casa lavoro e lavoro casa. Il punto - dice - è che è a casa con noi, ci vede, sa che siamo insieme e continua a lavorare più volentieri. In pratica: non esiste soluzione di continuità fra lavoro e vita privata. Io ho scritto una mail dettandola a Google mentre tenevo buona la peste; mando esercizi da fare mentre accendo il gas o faccio il bucato; durante le videolezioni cerco di nascondere dal collo in giù tutto il caos che fa la peste. 
È un nuovo modo di vedere il lavoro, ancora in itinere, ancora non ben definito, ma che in questo momento non giudico né giusto né sbagliato, solo necessario: e da questa necessità, sono sicura, la società umana troverà nuovi modi di intendere il lavoro, il mercato, il welfare, il tempo libero. 

Non dimentico mai che siamo fortunati: tutti coloro che hanno un esercizio commerciale che vende cose tangibili non si possono permettere il lusso di lavorare stando a casa. Ma, ancora di più, siamo fortunati perché ci sono persone in ospedale, sole, e i familiari, altrettanto soli, di quelle persone in ospedale. Non oso immaginare l’angoscia. Trovo infatti che cantare o proporre corsi passatempo online - dalla panificazione agli scrub viso - sia quanto meno inopportuno, sia per chi sta male, sia per chi continua a lavorare in prima linea, fuori casa, e il tempo per il ragù o le pulizie di Pasqua non ce lo ha. Questa quarantena non è una vacanza e per molti purtroppo è una guerra.  Si eviti di sbandierare ai quattro venti una ilarità fuori luogo. Nessuno ha cantato a squarciagola o ha allestito arditi dj set a  ridosso del terremoto di Amatrice o del crollo del ponte Morandi. 

Detto ciò, dobbiamo stare in casa. Lo dicono scienziati autorevolissimi, di certo non io. Molti non riescono a starci, tutti praticamente non vedono l’ora di tornare in strada ad abbracciarsi, in un impeto di affetto che pare quasi costruito e poco sincero. Ancora una volta qui smettono le mie parole, perché trovo più opportuno far parlare persone molto più autorevoli di me. 

In questi giorni ho ricominciato a leggere cose che avevo lasciato a metà. 
Sono tornata a quello che, ancora una volta, posso definire il mio scrittore preferito, Dostoevskij. Ciò che scrisse nella seconda metà dell’Ottocento non sembra tanto figlio dell'oggi, quanto il prodotto di una mente superiore, che sa leggere tutto, anche gli interstizi, che trova schemi e sa lasciare ai posteri analisi lucidissime valide per l’eternità. Ho letto Il sogno di un uomo ridicolo. Dostoevskij descrive un sogno, molto lungo, di un uomo ridicolo che, in procinto di suicidarsi, viene catapultato in un altro mondo: qui l’umanità vive ad uno stadio di paradiso terrestre. Una cosa meravigliosa, bellissima. Ma l’arrivo dell’uomo ridicolo corrompe questa utopica ed ideale umanità: e in poche pagine, il sommo scrittore russo descrive il declino dell’umanità, fatto di divisioni, guerre, idee, religioni, fazioni, marciume, corruzione. Da questo sogno, da questa analisi, l’uomo ridicolo decide di rinunciare al suicidio e di votare la sua vita alla predicazione della Verità, di aiutare, di camminare, di portare Bellezza. Un finale stranissimo, in cui non è chiaro se la Verità dell’uomo ridicolo sia davvero cosa buona e giusta o se sia un altro campanilismo esasperato, figlio di una società - quella umana - che si autodistrugge, che trova l’antidoto alla sua distruzione e subito torna a diatruggersi. Il punto però è questo: la bellezza di cui tanto parlava Dostoevskij e che oggi viene citata a sproposito su ogni sorta di profilo social, ecco, quella bellezza non è la bellezza estetica di foto ben fatte, di tavole imbandite, di nuvole e sole a decorare il cielo azzurro. Quella Bellezza è sinonimo di profondità, chiarezza, verità, giustizia, unità, benevolenza, coraggio, perseveranza - umanità in senso buono. Quello che dovremmo essere noi oggi. Leggete Il sogno di un uomo ridicolo e capirete che non ci sono parole più giuste per descrivere la nostra comunità ora - e sempre. 

Poi, ho pensato anche all’uomo come singolo e non solo come comunità e società. Perché dovremmo pensare innanzitutto a noi come singoli per essere parte di un tutto Bello e Buono. Essere consapevoli di essere ridicoli. Così, mi è venuta in mente la frase di Baricco, tratta dal suo romanzo City: gli uomini hanno case ma sono verande. La veranda protegge la casa, ciò che noi siamo veramente: ma per proteggere la casa, ci sistemiamo sulla veranda, rinunciando ad essere davvero noi stessi e, parafrasando, ci condanniamo  a vivere una vita di facciata. Ecco, è vero che siamo animali sociali e siamo una comunità, ma dobbiamo essere comunità anche in modo profondo, non solo per la baldoria e la goliardia. Stare un po’ dentro le nostre case, ma dentro davvero, ci metterà di fronte a noi stessi: ne abbiamo paura? Proviamoci. Anzi, provateci. Io sono abituata a stare in casa, con me e con la mia famiglia. Per me niente di più bello e infinito. 
Pensate a chi ha vissuto tutta la vita dentro la propria casa creando mondi di cui ancora noi usufruiamo: le poesie  di Dickinson, ma penso soprattutto a Cézanne, alla sua tela posta per anni di fronte alla stessa montagna, la Saint Victoire, da cui l’artista ha fatto scaturire, come una fonte, tutta l’Arte Contemporanea. 
E penso soprattutto a van Gogh. Definitelo pazzo o come volete voi. La letteratura a volte tende sin troppo a semplificare. Di sicuro qualche problema lo aveva, ma van Gogh era semplicemente una persona molto profonda, di sicuro fragile (non debole!), cioè frammentata, che rimuginava su quei frammenti che lo componevano e che da essi ha saputo trarre viaggi e mondi. Penso ai suoi estenuanti autoritratti; alla sua stanza; alla notte stellata. Proprio leggendo le Lettere a Theo, mi sono imbattuta in una meravigliosa  descrizione, risalente al 1876, sicuro prodromo alla Notte Stellata. È un’invocazione, una benedizione dalla finestra della sua camera - ed è quello che silenziosamente dovremmo fare tutti. Con le commoventi parole di Vincent chiudo questo post: 

Quella stessa notte, dalla finestra della mia camera, lasciai vagare lo sguardo sui tetti delle case e sulle cime degli olmi, scuri sullo sfondo del cielo. Sopra quei tetti brillava una sola stella - splendida, grande, amica. Pensai a voi tutti e agli anni trascorsi e alla nostra casa, e dal mio cuore sgorgarono queste parole: «Impediscimi di essere un figlio di cui ci si debba vergognare; concedimi la Tua benedizione, non perché la meriti, ma per amore di mia madre. Tu, che sei amore, copri ogni cosa. Senza la Tua continua benedizione non possiamo riuscire a nulla».
Vincent van Gogh, Lettere a Theo, Guanda, traduzione di Marisa Donvito e Beatrice Casavecchia



Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Che meraviglia di post, cara Veronica ... Da quando ci webconosciamo - ormai quasi dieci anni - riconosco nei tuoi scritti (e quindi anche nella tua persona) una straordinaria affinità elettiva. Buon tutto.
Veronica ha detto…
Ti ringrazio, Maria. Anche il tuo post di ieri è di una bellezza disarmante... concordo con la webaffinità... sei una persona straordinaria!