Sporcarsi le mani (con la realtà)

Ho un blog - strumento fondamentale per chi ama scrivere, come me. Il blog mantiene allenata la scrittura, ma soprattutto crea il diario dell’andamento della propria quotidianità, rendendola speciale: non un semplice resoconto di ciò che si fa nell’arco di una giornata, ma la descrizione mista a riflessione di particolari, di cose viste, lette o assaporate, che possano in questo modo sollevarsi dallo stato di empirico trascorrere e diventino letteratura. Oggetti artistici. Immortali. 

Poi sono arrivati i social media - o social network o come volete chiamarli - e la comunicazione dei blog è molto cambiata. Occorre essere espressamente, sentitamente social per poter sopravvivere nel web e, soprattutto, per poter far sopravvivere le proprie parole sul web. 

Che poi non me lo ha mica chiesto nessuno di scrivere qualcosa qui in giro per la rete. Lo ho deciso io e basta, giusto -  appunto -  per dare un senso alle cose dell’esistenza (perché solo nel momento in cui vengono scritte e corrette per altri le cose assumono un senso anche al di fuori di chi le ha scritte). Dicevo: i social hanno complicato un po’ le cose. Magari per la maggior parte delle persone le hanno facilitate, ma di sicuro le hanno complicate per me. Perché non sono molto social, ecco. Nella vita reale ho varie relazioni: con la mia famiglia, con gli amici, i vicini di casa, i venditori di fiducia a cui mi rivolgo per rifornire il frigo, i colleghi di lavoro - persone e situazioni in cui per forza di cose mi trovo a interagire, in maniera più o meno facile, in maniera più o meno ansiogena (diverso è risolvere un problema in casa da uno sul lavoro e diverso è prendere un caffè in famiglia o con i colleghi, ma tant'è: sono relazioni normali a cui nemmeno spesso si fa caso).

Mi riesce più difficile costruire relazioni dal nulla sui social network. Eppure ci sono persone conosciute esclusivamente qui nel mondo dei blog che stimo moltissimo e che, anche in silenzio, seguo sempre.

Di sicuro c’è una timidezza di fondo che mi impedisce di essere socievole sulla rete. Però il punto è: sì, sono timida, ma anche se ogni anno cambio scuola e colleghi riesco a instaurare delle relazioni; forse perché sono relazioni motivate dal luogo in cui sono? È il luogo in cui sono che mi aiuta a formulare frasi e richieste e  a parlare persino di argomenti avulsi dal contesto lavorativo? Eccoci arrivati al punto: stare a fare nulla sui social e, dal nulla, decidere di condividere una cosa, una qualsiasi cosa, lo trovo del tutto inutile e immotivato. Perché ti e vi dovrei dire che la canzone tal dei tali mi piace da morire? Perché dovrei scattare una foto del vialetto alberato che percorro tutte le mattine e pubblicarlo al mondo con qualche hashtag? 

Certo, anche scrivere su un blog è condividere qualcosa, ma, seppure sempre nel mare magno di internet, lo sto condividendo in un mio spazio controllato, strutturato e motivato, non in uno spazio reticolare creato da altri e con regole di condivisione e approvazione/disapprovazione anarchiche (che vanno dall'affettazione stucchevole al far west). 

Il punto è semmai un altro ancora, oltre alla timidezza e al sentimento di inutilità che mi pervadono di fronte a un social: è il non potermi sporcare le mani con la realtà. 

È il sentimento più “sentito”, se vogliamo. Lo ho capito piano piano. Ho iniziato a scrivere sul blog e su qualche rivista di cinema qua e là. Mi ritrovavo a qualche festival a sentir parlare di film in un modo che a me nemmeno piaceva - con poca profondità di pensiero, con un linguaggio più vicino al cicaleccio social (tanto per acchiappare visibilità e like) che a quello che si confà, secondo me, a discorsi artistici. Seduta su quelle poltrone mi sentivo del tutto inadeguata e fuori dal mondo: perché? 

Perché ciò che avevo studiato non poteva essere da me impiegato in modo utile. Utile a nessuno.

Solo dopo la prima supplenza ho capito che volevo sporcarmi le mani con la realtà: e che potevo farlo proprio grazie a quello che avevo studiato. Non si trattava di riportare le cose a uno stato banale e urlato in pieno stile social: si trattava di volare altissimo, prendere tutto quello che si era studiato e adattarlo alla realtà quotidiana di ragazzi che devono crescere. E che possono cambiare la loro vita in meglio (o in peggio) in base a una frase (giusta o sbagliata, dritta o storta) su Michelangelo o sulle molecole o i numeri primi o la sillabazione di una parola; la loro vita (o la loro giornata) può cambiare anche in base a una frase che pronunci in risposta a una loro intima confessione - che magari nemmeno alla madre o all’amica riescono a fare. Posso assicurarvi che entrare in una scuola è unire l’alto, l’altissimo di tutta la disciplina che si studia all’università al basso (non inteso nel senso di infimo o di poco valore, ma nel senso di qualcosa di vivo che attraversa prepotentemente, violentemente l'esistenza) della vita quotidiana di migliaia di ragazzi. E tu, di tutto quel sapere prima avulso da ogni contesto, ora sai cosa farne, piegandolo alle esigenze del quotidiano.

E in fondo non fai altro che applicare quello che tanti artisti hanno fatto nella loro vita: sporcarsi le mani con la materia, con vite difficili, con situazioni economiche al limite, per produrre qualcosa di alto e immortale.

Ecco perché i social non fanno per me - anche se spesso mi dico di ricominciare a usarli. Li vedo come uno schermo in cui si appare spesso senza essere e magari con qualche pubblicità piazzata in fondo alla didascalia di una foto che parte in un modo e finisce per proporti un prodotto.

Un po’ come fare il pane. Per produrlo occorre studiare molta teoria, fatta di parole che magari ai più risultano difficili - autolisi, pirlatura, stagliatura, l'umidità, la temperatura, il lievito madre. Ci si sporca effettivamente le mani e il risultato è qualcosa di inarrivabile e perfetto: il senso di tutta un’esistenza, nel pane.

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Il pane nella foto è fatto da me (sì, mi piace infarinarmi le mani): 500 grammi di semola, 500 grammi di manitoba, 700 grammi di acqua, 20 grammi di sale, lievito di birra e tanto amore nell'impastare, piegare e ripiegare. 



Commenti

Vele Ivy ha detto…
È incredibile l'affinità che sento nelle tue parole. Ho ripreso da poco a scrivere sul blog, era un bisogno che sentivo e non sapevo nemmeno io il perché, ma tu mi hai dato la risposta.
E inoltre, anch'io ho in progetto di andare a insegnare. Sto giusto studiando per dare gli ultimi esami che mi mancano per poter accedere all'insegnamento :-)
Veronica ha detto…
Allora non posso che farti in bocca al lupo per tutto :). È un percorso a volte tortuoso, ma ne vale la pena. Vedrai che ci riuscirai :).