La Compagnia del Cigno



La Compagnia del Cigno è stata una delle migliori serie sfornate dalla Rai. È entrata nella mia personale videoteca di cose belle assieme a Rocco Schiavone: che non si offenda nessuno, ma la Rai ha fatto tanto martellamento pubblicitario per serie evento che, sì, erano molto ben confezionate, ma che di evento avevano ben poco. 

Forse mi conviene argomentare per punti, perché altrimenti rischio di perdermi nel ginepraio dei pensieri e di annoiarmi.

Punto primo, forse banale ma sicuramente imprescindibile: la Compagnia del Cigno è una gioia per gli occhi. A ogni puntata gridavo a mio marito LA FOTOGRAFIA È DI LUCA BIGAZZI! Luca Bigazzi, capito? Che dire: quei bianchi e quei neri ammalianti, quelle cromie eleganti, raffinatissime... erano cinema, altro che televisione! Mi sono persa in certi contrasti e in certi momenti di luce e ombra ora netti, taglienti, ora morbidi e caldi. La sequenza fotograficamente più bella: quella in cui l’orchestra del Conservatorio di Milano si esibisce al buio, per partecipare del buio che vive Sara, violinista ipovedente.
Ma non dimentico neppure la penna e la regia di Ivan Cotroneo, forse - almeno televisivamente parlando - la voce più originale, sempre fuori dal coro e sempre con una cifra stilistica riconoscibile e personalissima. 
Quindi, a conti fatti, La Compagnia del Cigno è stata più un’opera cinematografica che televisiva.

Punto secondo. La gioia per le orecchie. La gioia per le mie orecchie di melomane. Io una colonna sonora così radicata nelle immagini e nella storia, una colonna sonora così - lo dico - bella non l’ho mai sentita in tv. Forse solo con Rocco Schiavone: ma ne La Compagnia del Cigno, ovvio, la musica è parte integrante della storia, è essa stessa storia e personaggio e non è solo compendio alle immagini. La musica classica in prima serata su Rai Uno. Ma roba da pazzi. Roba da farmi venire la pelle d’oca alta dieci centimetri. Io che mi sono fatta regalare negli anni soirée al Teatro dell’Opera e che ho passato l’intera messa in scena del Rigoletto, dall’accordatura dell'orchestra al calare del sipario, a piangere, di continuo, con i brividi lungo la colonna vertebrale: a me fa questo effetto la musica classica. Non so spiegarvi il perché. Ma la ascolto, da sempre, e non so nemmeno come ho iniziato. 

Punto terzo. La scelta dei personaggi è una vera e propria rivoluzione. I protagonisti sono adolescenti. E, per la prima volta, non sono adolescenti sbandati, alle prese con un futuro che non c’è e con un presente senza appigli: i protagonisti sono ragazzi normalissimi, con i problemi (e le sfighe, a volte un po’ eccessive) che hanno altri ennemila ragazzi; eppure, allo stesso tempo, sono adolescenti diversi: perché, nella loro normalissima vita identica a quella di altri diciassettenni, hanno inserito l’amore per la musica e il coltivare un talento studiando forsennatamente. Con il talento, lo studio e una sensibilità artistica ed emotiva non indifferenti cercano di costruirsi un presente e un futuro degni di nota. Lo studio, il sacrificio, la passione per la musica non vengono mai messi in discussione, nemmeno di fronte a problemi grandi e difficilmente affrontabili. I ragazzi della compagnia si fanno forza grazie alla condivisione delle passioni e dei problemi e a un’amicizia sincera, un’amicizia sana, imprescindibile.

Non sono musicista e non vivo di musica, ma mi sono sentita rappresentata. Avrei voluto una serie tv del genere quando ero adolescente e mi sentivo dare della sfigata perché studiavo tutto il giorno e frequentavo il laboratorio teatrale della scuola - e, anche quando mi sono iscritta alle Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo all’Università, un po’ tutti mi hanno fatta sentire inutile. Sapete com’è: c’è questa cosa secondo cui non si può vivere di arte, se studi l’arte vuol dire che non hai voglia di fare nulla e tutti ti immaginano come un poeta maledetto alla stregua di Baudelaire.
Nonostante questo, ho deciso di fare proprio dell'Arte una cosa da insegnare. L’Arte fa parte di me. E ho deciso di insegnarla agli adolescenti perché mi sono sempre ripromessa di voler portare ai ragazzi cose belle e, soprattutto, di incentivare i loro sogni, senza sminuirli e senza consigliar loro strade alternative e sin troppo lontane dalla loro indole; perché mi sono sempre ripromessa di farli sentire speciali per le loro caratteristiche peculiari, nonostante e forse anche grazie ai problemi che si portano dietro come zavorre.

E qui veniamo all’ultimo punto per il quale La Compagnia del Cigno è stata una grande serie: l’inquadratura finale, la panoramica dall’alto su Amatrice rasa al suolo ma illuminata da un sole caldo e avvolgente e i sette ragazzi della Compagnia sdraiati a rilassarsi tra le campagne della città reatina.
Una grandissima metafora. Anzi, una metafora e una metonimia insieme. Sul finire di una puntata che si intitola Il nostro futuro.
Come i ragazzi della Compgnia risorgono dalle ceneri dei loro problemi grazie alla musica e all’amicizia, così Amatrice - e l’Italia tutta, a questo punto - può risorgere grazie ai giovani, ai talenti dei giovani, e alle arti, di qualsiasi tipo, che siano visive, sonore, meccaniche, letterarie. È un grande inno alla gioventù che si dà da fare, che si sacrifica, si impegna e fa (nel senso greco, lingua in cui fare e poesia provengono dalla stessa parola, poieo): è da qui che occorre ripartire. 

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