Le foto nel mio album

Nell’epoca di Instagram devi essere glamour. La tua vita deve essere glamour. La tua esistenza deve corrispondere a una carrellata di immagini accese, dai bianchi accesi, dagli azzurri accesi, dai verdi accesi, dall’ordine apparentemente casuale ma pur sempre “acceso”: il risultato è un mosaico che con un solo colpo d’occhio deve dare all’osservatore l’idea di quanto sia accesa e figa e glamour la tua vita; di quanto tu viva la tua vita, tra un prosciutto crudo perfettamente arrotolato e la schiuma della birra montata ad arte. Il mare, il cielo, le montagne, le vetrine traslucide, la mise en place del momento, le persiane colorate, le persiane semiaperte, arbusti rampicanti, libri in ogni posizione tranne che in libreria eccetera eccetera eccetera.
Non sto facendo una campagna moralizzatrice, anzi: non ho Instagram, ma di questo social qualcosa mi affascina. Forse mi affascinano i colori o forse, molto più semplicemente, mi incuriosisce il modo in cui la gente tenta di dare un indirizzo (sempre straordinariamente fantastico!) alla propria vita: come se vivendo - e scattando foto - ognuno potesse già dire “ecco, la mia vita è questa”. Mi affascina questo punto perché io non saprei proprio che elemento fotografare per dire “ecco la mia vita è questa”. Non lo so perché ho passato un po’ del mio tempo fino a qui a studiare l’arte e la poetica degli artisti e so che nessun artista, pur avendo una poetica, è mai un monolite chiuso e dall’arte perfettamente replicabile. 
In itinere, la vita è sfuggente. Diceva Pasolini che solo dopo la morte si può avere un quadro generale della situazione, cosi come, dopo il montaggio, il film smette di essere un fluire caotico di vita e diventa un elemento racchiuso e perfettamente analizzabile. 
Quindi, la cosa che mi chiedo è: come fare attraverso i social a produrre l’idea della propria vita mentre la si vive? È impossibile. 

Forse io non sono nemmeno la persona più adatta a fare una riflessione del genere. Ho a malapena un account Facebook, ma non lo uso praticamente mai, non sono un animale molto sociale, figuriamoci se posso essere social... sono tutto quello che un social media manager non dovrebbe essere. Nel mio discorso non c’è alcun giudizio, solo molta curiosità. Mi chiedo cosa spinga le persone a mettere la propria vita in vetrina. Perché poi la vetrina deve essere ben patinata, non ci si può permettere di fotografare qualcosa di troppo “sporco”. 

La riflessione è cominciata a nascere in me negli ultimi giorni. Sono tornata al paesello natio per le vacanze e con il ritorno, ovvio, scattano sempre i ricordi d’infanzia. Ci sono sapori e odori e oggetti messi qua e là per casa che ricreano in mente epoche, periodi, fasi o solo il senso sfuggente del nido familiare. Ho mangiato pesce e altre leccornie che avevano il sapore di mamma e papà. Ho partecipato a una sagra di paese e a una cena di famiglia che però era anche per strada, fuori la porta di casa. In entrambi i casi, piatti di carta, tavolate spartane e disordinate, panche, sedie tutte diverse, rimediate tra una stanza e l’altra e cantine polverose e tutta una serie di altre cose messe un po’ lì a caso che difficilmente possono rientrare in una foto da mettere in vetrina. Perché quelli sono i casi in cui sei più impegnato a vivere che a fotografare e a pubblicizzarti agli altri e, anzi, del mondo là fuori proprio non hai bisogno. Ti piace stare lì nel fluire delle cose e dei sentimenti - e l’unica foto che puoi tentare di fare è quella nella tua mente, per catturare più momenti possibili di qualcosa che rimarrà dentro di te e che, in qualche modo, ti costruisce.

Intendiamoci: sono una grande appassionata di fotografia. Fotografo tante cose e le ho sempre fotografate anche quando il rullino era solo da ventiquattro foto (quello da trentasei era un lusso). Con il rullino dovevi fare economia e scegliere i momenti davvero importanti. Soprattutto, stampavamo le foto e le incollavamo negli album. Gli album erano chiusi. Lo sottolineo: chiusi. Gli album rimanevano chiusi e impolverati sullo scaffale e aprirli era come scovare uno scrigno segreto. Si guardavano le foto una ad una, indicandole con il dito, prendendo la lente di ingrandimento, sfogliando piano la velina e poi la pagina di cartone. 
Come se le foto fossero un pezzo di cuore, un pezzo di vita che riprende vita nel momento in cui le si disvela di nuovo aprendo l’album. 
Ho sempre avuto l’impressione che la possibilità di fare foto pressoché infinite non renda giustizia al momento che si sta vivendo, momento che spesso, con la consapevolezza e la scelta può essere restituito nella sua profondità e interezza anche da una sola foto. 

Non è molto chiaro questo mio ragionamento: forse perché i pensieri mi fluiscono così, sparsi, e ognuno confina con l’altro anche solo in modo sfocato, per semplice associazione di idee. So solo che se voglio vivere a fondo una cosa non la fotografo e se lo faccio scelgo un istante solo, preciso - perché quello che ricordi non è quello che fotografi. E so anche, infine, che quello che fotografo scegliendolo bene, lo chiudo in un album, in uno scrigno, che è mio e solo mio.

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Ciao Veronica. Ho apprezzato molto quello che hai scritto. Lo condivido.
Secondo me, l'eccesso di foto patinate su Instagram e di sorrisi su FB è spia di una disperante solitudine. Quando stai bene nelle relazioni, non hai bisogno compulsivo di postare le foto su Instagram.
Buon tutto.