Scrivere è inutile














UNOeDUESliceofLife

Credo che scrivere sia inutile. 
A volte ho voglia di far tutto meno che di scrivere - anche se da sempre scrivo per una qualche sconosciuta esigenza che è nata con me e che si è abbarbicata dentro di me come una foresta di rovi selvatici. 
Eppure, mai come ora reputo del tutto inutile mettere tre parole su carta - su schermo - e registrare le emozioni che vivo, sotto forma di cronaca o di racconto. 

Sì, si scrive per registrare ciò che si vive, per capirlo, per dare ordine al caos, per rendere poetico il caso, per avere traccia e memoria di quello che si vive. Ecco, ora, forse, nonostante l’estrema riluttanza nei confronti delle parole, scrivo più che altro per lasciare traccia di qualcosa di importante. Anche se l’importanza di quello che decido di raccontare non riesce a essere contenuta in nessuna riga. 

Si scrive per narcisismo e in nome di un narcisismo mai sbandierato abbastanza si dicono cose inutili, di nessuna importanza, di cui tutti farebbero volentieri a meno. Probabilmente - anzi, sicuramente - sono narcisista anche io, che scrivo adesso dicendo di non voler scrivere: ma ho solo bisogno di specchiarmi e questo luogo qui, in cui scrivo da circa nove anni, è l’unico in cui posso lasciare traccia di qualcosa di importante senza che vada perso nella carta di qualche trasloco o tra le tarme di un oscuro armadio dimenticato. È un posto fondamentalmente mio: non è un canale a tiratura mondiale e in pochissimi gravitano qui. 

Si scrive per dare parola a qualcosa di indicibilmente bello che si è vissuto e provato, ma, appunto, quel qualcosa rimane indicibile: inutile dare voce a ciò che rifugge da ogni piglio razionale. Inutile. Del tutto inutile. Le emozioni viscerali sono tali, rimangono tali - e se fossero esplicabili allora non sarebbero tanto viscerali. Non sarebbero tanto importanti. Ho tentato per due anni di dar voce a un percorso per me profondamente importante come il matrimonio, ma solo ora mi rendo conto di quanto sia parziale la profondità che sono riuscita a descrivere in quei brevi post, a cui ho dovuto dare una forma e un senso e a cui, di sicuro, ho tolto tanto, forse quasi tutto il bello e il profondamente reale che c’era, pur di ingabbiarlo in una forma coesa e con un senso compiuto. 

Si scrive per registrare la vita ma, ecco, nel momento in cui si registra la vita, la vita non c’è più. O si vive o si scrive. Diceva Pasolini che il montaggio finale di un film equivale alla morte: solo allora, quando si finisce di girare e si monta, si dà senso alle immagini e solo allora si smette di perpetuare vita.

La vita è profonda e indicibile e sfuggente, a tratti vedi una cosa e ti pare di capire tutto, il momento dopo capisci che non hai capito niente e che l’unica cosa che puoi fare è continuare a guardare, a contemplare, a perderti. Di fronte a tante ondate di bellezza e forza, dove, come, perché dover scrivere? Perché dare per forza un senso a tutto?

Ero in macchina, qualche giorno fa, sull’autostrada. Dalla radio usciva Fuzzy. Io mi incanto a guardare lo specchietto retrovisore dal lato del passeggero. Nello specchietto vedo i lampioni a forma di gabbiano che si ergono al centro dello spartitraffico. I lampioni entrano nello schermo dello specchio e ne escono seguendo perfettamente il tempo della chitarra di Fuzzy. Sullo sfondo un tramonto abbacinante. Di quei tramonti in cui ti senti a casa. Perché è importante che tu ti senta a casa, che tu ti senta nel posto giusto, proprio al momento del tramonto, al limitare della sera, quando sei in bilico tra giorno e notte, luce e buio - e anche solo una sfumatura di buio o una sfumatura di luce possono migliorarti o peggiorarti l’esistenza. 
Qual è il senso di ciò che ho visto nello specchietto retrovisore? Nessuno. Non c’era alcun senso. Solo tanta bellezza, tradita dalle mie banalissime parole. Anzi, non mi sono nemmeno spesa un po’ a tentare di rendere poetico quello che ho visto. Non ne vale la pena. Sforzo inutile. Quello che ho visto e provato rimane dentro di me. Quello che ho scritto non ha neppure l’un per cento della bellezza che potrei condividere, ma che per limite, umano o divino, non posso condividere. 
Spietata bellezza senza senso di ciò che vediamo. 
Muta bellezza di ciò che mi porto dentro, solo con due occhi enormi per guardare e i nervi per sentire. 
Una stratificazione di cose che, composte, dentro di me hanno trovato un senso: e io di certo non starò qui a banalizzarlo. Non sono così brava. Non sono perfetta. 

Michelangelo nell’uomo vide un corpo alto cinque metri, un corpo marmoreo, l’espressione concentrata e accigliata, le braccia lunghe, forse troppo, il petto scolpito, gambe e cosce poderose: un uomo che è un dio e che troneggia sul mondo, pur nella sua infinita piccolezza. Schiele nell’uomo vide un corpo contorto e multicolore - rosso, marrone, turchese, viola - striato, allungato, rattrappito, immobile, in movimento, con gli occhi pieni e gli occhi vuoti: una sorta di verme strisciante, pur nella sua infinita grandezza. Quale sia la forma esatta dell’uomo, se quella di Schiele o quella di Michelangelo, non lo so. No. So che entrambi hanno tentato di dare forma a qualcosa che non possiamo dire. So solo che dare forma a un corpo significa dare forma a una vita inafferrabile e perfetta, piccola e grande, silente e tonante. 
E che io non sono nessuno per descrivere questo.

So solo che ho l’infinito privilegio di sedermi sconvolta a guardare incantata - in silenzio.

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Michelangelo Buonarroti, David, 1501-1504
Egon Schiele, Lottatore (Autoritratto), 1913

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