Il viaggio verso casa

UNOeDUE

C’era un particolare momento delle giornate estive della mia infanzia che mi riconciliava con il mondo. Durava poco, ma era bellissimo.
Era il momento in cui si tornava dal mare. Si montava in macchina - la macchina stracarica di tavolini, sedie, cesti e frigoriferi per il pranzo, giochi per la spiaggia, asciugamani, scarpette, cambio costume, protettori solari e casse d’acqua potabile - e si viaggiava per pochi minuti, al massimo venti, chi lo sa, ma per me era un tempo infinito.
Era un tempo prezioso, soprattutto. Quel viaggio dal mare a casa era un confine, un “di più” che la vita mi offriva, una sorta di venticinquesima ora. Non dovevo fare niente, solo godermi il viaggio sui sedili posteriori, guardare fuori del finestrino, osservare scorrere le altre automobili impegnate nello stesso viaggio, scrutare tra le finestre aperte di chi a casa era arrivato prima di noi e si affannava per ricominciare la vita, caotica, anche stressante, del post-mare.

Chi è nato e ha vissuto in una città di mare sa che l’estate (che va dalla fine della scuola a giugno al giorno prima dell’inizio della scuola a settembre) è un vero e proprio lavoro. L’uomo di mare si ritaglia qualsiasi lembo di tempo per andare a mare: alle sette del mattino prima di andare a lavoro, in pausa pranzo, dopo l’uscita dal lavoro, dalle sei fino alle otto di sera.
E così avveniva anche per noi.
Di sabato e di domenica, invece, ci si trasferiva direttamente al mare, con la corsa all'alba per occupare i parcheggi e i posti in spiaggia migliori: si effettuava un vero e proprio trasloco, tanto che, sotto la pineta e in spiaggia, qualsiasi cosa chiedessi agli adulti - cibo, disinfettante, un gelato, un cuscino - mi veniva prontamente dato. Genitori e nonni che iniziavano i preparativi in cucina la sera prima, organizzazioni all'osso e lo studio del tetris del bagagliaio della macchina (che venticinque anni fa non aveva la stessa capienza delle automobili di oggi): e si partiva. Si partiva già stanchi, probabilmente, ma io, quella stanchezza, la subivo solo di riflesso, perché avevo qualcuno che si occupava di tutto per me. Ci si ritrovava al mare con parenti e amici, che a loro volta avevano organizzato il weekend al mare in modo altrettanto maniacale - ma con una sana, scanzonata voglia di divertirsi.
Si stava in spiaggia fino all’una, poi si correva sotto la pineta e si univano i tavolini di tutte le famiglie presenti: si costruivano tavolate immense di venti, trenta persone, e ogni donna cuciniera si presentava fiera con la propria personalissima lasagna, con la propria personalissima versione della carne fritta, della parmigiana, dell’insalata di mare, del ciambellone al cioccolato e della macedonia di frutta. Si mangiava per ore e noi bambini dovevamo stare attenti: perché dal pranzo al bagno successivo dovevano passare almeno tre ore.
Quando tutti poi erano in ferie, le giornate del weekend si dilatavano e si ripetevano per tutto l’arco della settimana. Dal lunedì alla domenica full time. A volte, cenavamo pure a mare, quando le giornate erano più lunghe. A casa ci tornavamo solo per dormire.

Sono stralci di infanzia che ricordo con estremo piacere. Vivevo in un mondo fatto di bambagia. Ero piccola. I nonni mi sembravano eterni. C’eravamo tutti. Io avevo solo il compito di tuffarmi a mare, raccogliere conchiglie, esplorare gli scogli, mangiare, dormire dopo pranzo, ritornare in spiaggia, stare in ammollo per quattro ore consecutive, fare merenda, ogni tanto dover cambiare il costume per non stare sempre con i panni bagnati addosso.

Però ricordo con piacere ancora più estremo quel viaggio in macchina dal mare a casa, alla sera, quando la giornata era davvero finita. Un’attesa che mi permetteva di mettere le cose a posto. Ero piccola, lo so, ma ricordo bene che quei pochi minuti di viaggio riuscivano a dilatarsi e a farmi riposare davvero, a capire il senso di quella giornata. Soprattutto, era un modo per allontanare più che potevo l’arrivo a casa, che significava metti a posto, sciacqua i costumi, fai la doccia, non spargere sabbia a terra, tieni buona tua sorella e via dicendo. Un altro caos in attesa, magari, dell’uscita dopo cena, a prendere il fresco, a mangiare un gelato, a salire sulle giostre.

Era un vortice continuo di cose da fare e io forse avevo solo voglia di capirci qualcosa.

Avevo quasi dimenticato quel momento che vivevo ogni volta con intensità. Mi è tornato in mente solo pochi giorni fa, ripercorrendo la stessa strada. Non tornavo dal mare, ero su quel percorso per tutt’altro motivo: tutto era cambiato, dal paesaggio all’asfalto sotto le ruote. Io sono cambiata, ma quella sensazione di bambina mi è piombata prepotentemente addosso. Mi sono sentita piccola e protetta, così, all’improvviso, come se fossi ancora ai primi anni Novanta, con quella possibilità di concedermi un’ora in più di giornata, un’ora in più di vita, per guardare, per capire, per costruirmi i ricordi - semplicemente per stare.
Godendomi l’esistenza così come è, al di fuori delle cose da fare.

Lo ho capito solo l’altro giorno che, in realtà, quello che facevo da bambina solo per sfuggire un po' agli eventi della giornata è diventata poi sostanza di vita.

L’attesa. Il non far nulla. Annoiarsi. Stare fermi a guardare. Stare fermi a respirare. Semplicemente stare.

Se non attendessimo, nulla avrebbe senso. Ho capito, così, che quei momenti di nulla in macchina prima di tornare a casa si ripetevano costantemente. Attendevo il bagno pomeridiano in mare  mentre pranzavo con le lasagne e la parmigiana, sotto la pineta. Attendevo il pranzo mentre facevo il bagno mattutino ed esploravo gli scogli giocando ad essere un pirata coraggioso che sfidava le onde. Attendevo di cominciare la mia nuova avventura a mare, chissà con quale gioco, chissà con quale invenzione, mentre in macchina viaggiavo da casa al mare.
E tutta questa attesa mi ha permesso, forse, di avere ancora oggi così vividi i ricordi e le sensazioni di quasi trent’anni fa: tanto che potrei calarmi in quei giorni - e riviverli - con una facilità sconcertante.

Negli anni, ho capito, le cose da attendere sono diventate più lunghe e più complesse. Ma senza tutta la preparazione nascosta nell’attesa, oggi probabilmente non avrei un carico di ricordi così prezioso - prezioso perché so con certezza di averlo vissuto.

Non so se attendere sia il segreto: so, però, che attendere è la mia sostanza. Snervante, a volte, ma divertente e piena di significato.

Non so neppure se sarò in grado di fare quello che genitori e nonni hanno fatto per me, permettendomi di crogiolarmi nel dolce far nulla tra giochi e mare e pranzi epocali dai sapori che non torneranno più. So, però, che quel “ritorno a casa” me lo porto sempre dentro. E, in fondo, costruire nell’attesa non è che il costante tentativo di un viaggio verso casa.


Commenti