Il pieno e il vuoto




Il pieno e il vuoto: li immagino come una tela satura di colori e poi come una tela bianca, non preparata, magari bucata, strappata. Come avere di fronte l'opera rinascimentale più satolla di figure e dettagli e, dall'altro capo, osservare i buchi criptici e altrettanto ovvi di un Lucio Fontana.
C'è una bella differenza. Da un lato, gli occhi si riempiono tanto da traboccare di bellezza e forme che non lasciano spazio a nessun altro pensiero; dall'altro lato, ci si trova di fronte alla solitudine della propria mente, un quadro dilaniato e apparentemente vuoto, enigmatico, il cui senso è solo ed esclusivamente compito nostro.
Il pieno ci riempie, ma è il vuoto che può arricchirci. Secoli di arte dipinta e raffigurata e poi il nulla di un pensiero, di un'idea, sbattuti lì, senza alcun senso - o portatori di tutto il senso del mondo. Il punto è che di fronte al vuoto, soprattutto dopo che si è sperimentato il pieno, siamo costretti a guardarci in faccia: e a capire se siamo in grado di riempirlo nuovamente, quel vuoto.

Ho capito dopo anni - e dopo tre nuove versioni in blu-ray - cosa mi ha sempre davvero attratto dei film di Miyazaki: la saturazione dei suoi colori, i dettagli pieni e il pieno di dettagli di ogni singola inquadratura. Pur di fronte a scene senza alcun dubbio perturbanti, Miyazaki sa coccolare il proprio spettatore, lo infila tra un morbido blu e altrettanto comode pennellate di densi pastelli: i colori risultano accesi, corposi come un materasso, accoglienti come il proprio - inconfondibile - cuscino. Miyazaki ha saputo e sa riempire i vuoti dell'esistenza con il pieno di un'arte immensamente costruttiva, in grado di cullarci anche quando dovremmo avere paura.

Un po' come quando siamo ansiosi e intimoriti e intirizziti dalla follia glaciale del caos mondano - e di notte ci avvolgiamo nelle coperte, più per proteggerci che per ripararci dal freddo. Ce ne stiamo lì, col cuore in gola, e continuiamo a ripeterci che ora, in quel bosco di lenzuola e piumoni, siamo protetti, che il mondo è lontano, che il mondo è fuori, che il mondo non può arrivare a prenderci e a risucchiare tutto il pieno che abbiamo dentro.
Ne capitano di momenti così, oh se ne capitano. Quando ci sentiamo vuoti dentro, basta chiudere gli occhi e immaginarci a galleggiare nel vuoto denso dell'Universo: in un batter d'occhio ci sentiamo dotati di un peso, di una massa fatta di sangue, carne, muscoli - e i punti di vuoto sono solo pensieri che non riescono a formare nessun baluardo contro ciò che ci svuota.

Capita, a volte, forse molto più spesso di quanto si pensi, di sentire un vuoto alla pancia: perché siamo animali e non siamo fatti solo di idee e metafisica. Il vuoto alla pancia, a volte, puoi riempirlo con un soffice cornetto lievitato per ore e giorni, un perfetto gioco di incastri di pieni e vuoti d'aria.
Altre volte, il vuoto che hai nella pancia non lo puoi riempire, puoi solo lasciare che finisca di svuotarsi, contro la tua volontà: e accettare che il caso abbia deciso di lasciarti in balìa del tuo vuoto.
L'unica cosa da fare è sforzarsi di non pensarci. O meglio: sforzarsi di inventare qualcosa da costruire.

Allora ritorni all'inizio dei tuoi pensieri. Capisci che, sì, un Lucio Fontana ti mette di fronte al fondo del tuo baratro e inizia a scavarlo: ma il più ampolloso dei quadri, quelli fatti di tanti colori e successive velature e aggiustamenti e sistemazioni e aggiunte e ritocchi, non è altro che un nuovo mondo costruito laddove prima non c'era niente.
In fondo, è dalla mancanza di qualcosa che nasce l'istinto a ricostruire.
E noi, ecco, noi non ci facciamo abbattere da qualcosa che non c'è - e che forse non c'è mai stato: perché è lo spunto per mordere il più morbido dei cornetti appena sfornati, lo spunto per avvolgersi nelle coperte fino a diventare un involtino, lo spunto per aprire gli occhi e caricarsi di colori, lo spunto per ricominciare da capo con tante - e ancora tante altre - cose da costruire e da fare.

Penso, come sempre, ancora una volta, a Egon Schiele. Alla sua capacità di riempire la tela di personaggi lividi e traboccanti, così traboccanti da essere veri: eppure, scorgo anche la sua capacità di far equivalere ogni tratto di pennello, ogni segno di colore, ad una ferita sulla pelle della tela - una ferita sulla pelle di chi guarda. Penso alla sua capacità di riempire uno spazio e allo stesso tempo di svuotarlo - di svuotarci: di metterci di fronte ai pieni e ai vuoti di cui siamo fatti e che non sempre riusciamo a equilibrare.
L'equilibrio potrà esserci solo se, dove si è aperta la ferita e il sangue ha cominciato a scorrere, riusciamo a buttare dentro un po' di colore e a riempire quel vuoto di dettagli e belle cose che altrimenti perderemmo di vista.

Immagine: Egon Schiele, Donna seduta di schiena, 1917, dettaglio

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