Ieri sera, tentando di leggere un libro - UNO E DUE

UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco; quarta parte - Torno a casa e mandorle ovunque; quinta parte - Perché, a volte, lei sparisce; sesta parte - Bella, mentre parla al vento sottovoce; settima parte - Si sveglia da un incubo

Ieri sera, tentando di leggere un libro. La schiena poggiata al cuscino memory, lei che fa finta di dormire su un fianco, dandomi le spalle, e io che da tre ore leggo le prime cinque righe di pagina quindici senza capire nulla. E ricomincio da capo.
Stiamo litigando. Non si vede, ma litighiamo. Perché per noi il litigio è più uno stato mentale che un volare di parole grosse. È il percepire la divisione, lo scollamento di idee, è uno stato di disequilibrio – e il litigio vero e proprio sta nel ritrovare l'equilibrio dentro di noi, non tra noi.
Sono bastate tre parole a far scattare questo stato mentale. Sui fiori e sulla musica del matrimonio. Io dico: rose bianche. Lei: nebbiolina. Io dico: pop, jazz, swing. Lei: Mozart, Chopin, Beethoven. Lei non aggiunge altro. Io aggiungo: la nebbiolina? Ma ti pare? Ci sposiamo e vuoi usare il fiore meno visibile della terra?
Butto gli avanzi di un eccelso pollo al forno con patate croccanti e dolci – ma che non vanno più giù – e infilo il piatto nella lavastoviglie. Dico solo: e la musica classica. Perché? Vogliamo uccidere i nostri parenti? Lei ribatte: ma tu ami la musica classica! Sì, rispondo, sì, mi piace, ma in cuffia. Dopodiché cala il silenzio. Lei, quando litiga con me, sta zitta. Abbassa la testa, non mi guarda e, a letto, mi dà le spalle, posizionandosi così tanto sul ciglio che quasi dorme sul comodino. Io me ne sto catatonico con questo libro in mano, di cui ho dimenticato titolo, trama e autore: e una miscela esplosiva di pensieri terribili. Penso, nell'ordine: non mi vuole più sposare. Non vuole più stare con me. Non vuole più parlarmi. Non mi vuole più. Non vuole più sposarmi. E poi, ancora, il gran finale: non mi ama più. Realizzo dopo un loop incessante di frasi a ripetizione che tra poco più di sei ore lei deve alzarsi per andare ad un appuntamento programmato da mesi. La scelta dell'abito da sposa. Penso: se si alza e va, mi vuole ancora. Se si alza e va, io mi rilasso, passo la giornata a leggere o di fronte alla PlayStation e rimetto a posto le idee. Lei trova l'abito e rimette a posto le idee. Per un giorno intero a gestirla saranno madre, padre, sorella, fratello e suocera. E noi due smettiamo di litigare.

Alle sei del mattino di un agosto asfissiante, lei si alza. Beve un caffè al volo. Fa la doccia. Si pettina per bene. Si trucca. Indossa l'ultimo abito – fine e bellissimo – che le ho regalato. Sosta per un po' su di me, che fingo a mia volta di dormire: non so cosa pensi o faccia, ma so che mi sta guardando. Mi sfiora appena i capelli con le labbra. Mi sfiora appena la schiena nuda con la collana che le pende dal collo. Esce. È andata all'appuntamento per l'abito. Abbiamo finito di litigare. Lei è ancora la mia donna. Stringo il cuscino. Mi addormento, finalmente.

Alle dieci del mattino di un agosto infernale, girovago per la casa in mutande e a piedi nudi. La barba incolta e no, non ho alcuna voglia di scorciarla. Indeciso, tra il libro di cui ho dimenticato titolo-trama-autore e la PlayStation. Penso alla fine che sono troppo deconcentrato per leggere da pagina quindici un libro di cui non so più nulla e schiaccio con estremo godimento il tasto piesse del paradiso videoludico. E lo schiaccio nell'esatto momento in cui squilla il mio cellulare. Devono passare almeno sei squilli prima di capire che il nome sullo schermo è quello di mia cognata. Di sua sorella. Mi avrà chiamato sì e no tre volte in tutta la mia vita e quando lo ha fatto è stato per portare guai.
Pronto? Sulla tv prende forma l'etereo mondo dei gamers, subito incrinato dalla voce maschile – non di sua sorella – di suo fratello che sentenzia: vieni a riprendertela. Dice.
Un monolite mi cade tra capo e collo.
Che. Che è successo?
Sta montando un casino con questo vestito – spiega. Tua madre pare paziente. I miei genitori mantengono la calma ma non ne possono più. Io sono a un passo dall'omicidio.
Dai, tranquillo. Dico e penso: non sono più abituati ad averla per casa. Aggiungo: lo sai che lei è così.
Lo so, risponde, ma devi venire lo stesso.
Perché?
Perché sta piangendo e ha paura che il vestito che vuole comprare non piaccia a te.
Cioè?
Ha paura di deluderti.
Non capisco, dico – ma ho capito benissimo. Stiamo ancora litigando. A distanza. O forse le mie parole di ieri sera hanno lasciato in lei più insicurezza del previsto.
Mio cognato spiega ancora: lei intende dire che deve piacere a te con quel vestito e ora non sa se riuscirà a fare breccia nei tuoi gusti.
Con estremo dolore del mio pollice – un fulmine che arriva dritto al cuore – spengo la Play. Con una barba indecente e la prima maglietta che trovo, salgo su un'automobile arroventata e raggiungo l'atelier. E se da un lato sto perdendo la mia giornata di relax, dall'altro sono ben consapevole del mio ruolo: io sono l'unico in grado di capirla e sostenerla. Genitori, fratelli – sì. Sono genitori e fratelli, ma io e lei ci siamo scelti, non siamo capitati per caso. E se ci siamo scelti un motivo c'è.

Sua sorella è fuori dell'atelier. Fuma elegante una sigaretta. Unghie laccate e senza la minima imperfezione. Caschetto dritto e liscio, quasi inquietante per la geometria perfetta con cui le incastona il viso. Abito griffatissimo a mostrare due ginocchia magre, troppo magre, montate su tacco dodici di una decolleté rosso fuoco. Dietro la montatura esagerata e da vip degli occhiali da sole c'è la versione mondana e smaliziata della mia lei. Tanto si somigliano quanto sono diverse. Non so esattamente il significato di quanto ho appena detto, ma non saprei descrivere meglio di così le due sorelle.
Spegni la sigaretta – le dico. E mia cognata capisce al volo: ah, ne sei consapevole. Sei consapevole che con mia sorella il rischio di ricominciare a fumare per disperazione c'è. Vero? Sei ancora in tempo.
In tempo per cosa?
Per non sposarla.
Smettila. Lo sai, lo sapete che è così. È inutile fare tutte queste tragedie. Poi passa.
Lo so bene che è fatta così. Ma ora è adulta. È più grande di me, santodio, sta per sposarsi e poi? Poi sarà madre? Sarà madre... così? Non può fare sempre la bambina. E comunque – dice cercando una mentina nella borsetta – tutto è iniziato perché lei credeva di potersi vestire da sola, invece l'abito da sposa te lo infila qualcun altro, tanto è scomodo. Si è sentita toccare da mani estranee e ha iniziato ad andar fuori di testa. Dal motivo stupido, come tu ben sai, è passata al livello successivo: crisi, problemi esistenziali e, soprattutto, la paura di non piacerti.
Be', dico, be', annaspo, forse perché, forse perché ieri sera abbiamo litigato.
Sì, me lo ha detto. Per questo ti abbiamo chiamato. Un po' è anche colpa tua. E un po' solo tu riesci ad arginarla.
Butto fuori l'aria. Vado da lei. Dico.
Poi mi dici come ci riesci, mi urla dietro.

Passo di corsa davanti al divanetto scamosciato dell'atelier, su cui stanno spiaggiati i miei suoceri e mia madre. Suo fratello sta in piedi con le mani in tasca con l'aria dell'avevo di meglio da fare. Alzo la mano al volo per salutarli e allo stesso tempo blocco ogni loro tentativo di parlarmi. Entro in una stanza piena di specchi e abiti bianchi. Al centro, c'è lei seduta su una poltrona. Immersa in un abito bianco enorme, immenso, col corpetto pieno di lustrini e una gonna in broccato. Mi vede, allunga le braccia, le scuote un po'. Significa: abbracciami. Lo dice: non posso alzarmi, l'abito è pesante. Abbracciami. Mi chino, la stringo. La litigata – se mai c'è stata davvero – è ufficialmente finita.
Ha due lacrimoni che le piovono dagli occhi. Due cadono e due si riformano subito, precipitando dalle ciglia.
Smettila di piangere.
Ho paura. Dice.
Di che?
Non lo so. Che sto sbagliando abito.
Di sicuro questo che indossi è sbagliato. Pietre e broccato... ti prego, toglilo!
No, questo è orribile. Risponde. L'ho messo perché so che non lo sceglierò mai e tu dovevi entrare...
Ah bene, ecco.
Però, mi fa. Qui intorno, appeso, c'è l'abito che voglio. A te, di questi, quale piace? Con quale mi vedresti bene? Con quale mi sposeresti?
È un test?
Sì.
Mi guardo attorno. Ce ne è uno bello, ma bello sul serio, in un mondo in cui gli abiti da sposa solitamente, secondo me, non sono belli – per questo se ne sceglie a fatica solo uno e per un solo giorno.
Alzo il dito, sto per indicarlo. Lei mi fissa. Ma ritraggo il braccio. La bacio, la bacio forte, fortissimo, lei mi stringe e ce ne stiamo un po' bocca a bocca avviluppati come quando avevamo diciannove anni.
Ti sposo pure in pigiama. Le dico. Ti sposo pure se vieni con una di quelle tute scolorite che metti in casa d'inverno. Pure nuda ti sposo!  Rido e mi lancia un colpetto sulla nuca.
Va bene, ora esci. Ho deciso. Lo compro!
Mi spinge via.
Esci dal negozio e chiama mia sorella.
Sì, padrona.

Aspetto per strada venti minuti circa. Sono venti minuti di un mezzogiorno d'agosto altro che di fuoco. Non trovo pace neppure all'ombra. Sudo pure attraverso la barba – troppo lunga oggi. Saltello e dondolo da un piede all'altro. Guardo la poca gente rimasta in città che vaga spaesata come se navigasse nell'atmosfera densa e bollente di uno scenario post-apocalittico. C'è un silenzio irreale, fin troppo irreale, per una metropoli. Poi, il mio gruppo famiglia esce vociando dall'atelier. Mia madre mi fa segno di avvicinarmi. Oh! Esclama baciandomi sulla guancia e allungando le o a dismisura, Oh, vedessi, è bellissima! Un incanto. Una cosa...!
Suo fratello mi lascia un pugno amichevole su una spalla – Bravo, mi dice. E sua sorella: poi devi dirmi come ci riesci. E suo padre: andiamo a brindare!

Entriamo in un bar. Due ragazzi in divisa e grembiule nero hanno in mano un bicchiere di prosecco e brindano con un altro paio di ragazzi in divisa e grembiule nero al di là del bancone.
Festeggiate anche voi? Dice mia suocera, tutta contenta, impazzita per aver visto sua figlia finalmente in abito da sposa.
I quattro ragazzi trangugiano il prosecco del loro immotivato e meraviglioso festeggiare e si rivolgono a noi con un sorriso enorme: Cosa possiamo servirvi?

Non so neppure quale ordinazione esca dalla mia bocca. Lei si siede in braccio a me.
La stringo, beve il suo drink, bevo il mio, ce lo scambiamo, li riprendiamo. Penso a quando, davanti allo specchio dell'atelier, l'ho baciata. Penso che è bastato un bacio e non una parola. Penso ad ora, sì, a questo stesso istante – penso che la sto tenendo sulle mie gambe. Noi due non siamo capitati per caso. Noi due ci siamo scelti. È così che iniziano le famiglie, no? Prendi i dadini bianchi dell'abaco, le unità. Prendine due, di dadini. Mettili accanto. Ora sono due unità. Ma già non sono più uno, sono due. Lasciali camminare assieme – e saranno poi decine, centinaia e migliaia.

Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Figura femminile e figura maschile, Studio per Adamo ed Eva, 1916
Soundtrack: Blastema, Intro, Synthami, Dietro l'intima ragione, dall'album Lo stato in cui sono stato

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Ogni volta che ti leggo mi viene da piangere e sto meglio. Sei magicamente catartica. Scritto assai bene anche quest'episodio, col balletto ben riuscito dei parenti. Brava! Grazie.