Soffocare - Chuck Palahniuk
Titolo originale: Choke - Autore: Chuck Palahniuk - Anno: 2001 - Traduzione: Matteo Colombo - Casa Editrice: Mondadori
“Folle” non è la
parola esatta, ma è la prima che viene in mente.
Victor Mancini è
sessodipendente. Cerca di disintossicarsi, ma è fermo alla fase
quattro del processo di disintossicazione da tempo e di
disintossicarsi non ne ha la minima intenzione. Perché fare sesso è
l'unica cosa che lo aiuta a non pensare, quella che gli toglie la
concentrazione, quella che lo allontana dalla depressione, dai
problemi della vita, dal lavoro, dalla Mamma. Le endorfine entrano in
azione per tutta la durata dell'amplesso, difficile farne a meno. Anzi, mentre fa sesso, Victor pensa a tutto ciò che possa rallentarlo
per continuare a vivere nella bolla emozionale pre-orgasmo.
Victor è un ex studente
di medicina; tutti i giorni si veste da americano del Settecento e
lavora come figurante a Colonial Dunsboro. Ha una Mamma, una Mamma
difficile, che ora staziona in un letto d'ospedale in preda a demenza
senile e priva della voglia di mangiare; una Mamma che ha passato la
vita a fare l'attivista – o il bastian contrario in qualsiasi
situazione – che si è vista portare via il figlio dagli assistenti
sociali e che ogni volta ha inscenato situazioni paradossali per
riprenderselo.
Victor passa certe serate
a soffocare. Entra in un ristorante, manda giù un boccone, finge di
strozzarsi e prontamente viene aiutato da qualcuno, un qualcuno che
riscopre se stesso mentre ridà la vita a Victor. Victor che ogni
volta che soffoca riceve un po' d'affetto.
Victor ha un amico,
Denny, anche lui sessodipendente. Denny cerca di disfarsi della
dipendenza: ogni giorno passato senza sesso è una pietra raccolta
dalla strada.
E poi c'è Paige
Marshall. Un medico e una bella donna, di fronte a cui Victor cede e
pensa al sesso – forse – non come dipendenza ma come risvolto del
sentimento.
Palahniuk costruisce una
storia folle – ma poi neppure troppo – complessa, carica di
svolte improvvise. Ma non lo fa in maniera lineare e canonica – ed
è qui che viene da definire folle il romanzo: per lo stile.
Palahniuk alterna capitoli in prima persona a capitoli in terza, va
avanti e indietro, i flashback si mescolano al presente, la realtà
si mescola ai pensieri, alle fantasie, alle prime volte, alle ultime.
La realtà si mescola alle finzioni e alle menzogne, in un processo che non è tanto la storia di un sessodipendente
alle prese con la dipendenza, quanto la storia di una decostruzione –
meglio – di una negazione del personaggio e di un azzeramento
dell'Uomo per una sua nuova costruzione.
Di Victor Mancini non
si può dire nulla tanto è stratificato il personaggio, tanto complesso
e diretto nei ragionamenti – impossibile incasellarlo. Con Victor
Mancini saltano tutte le definizioni, quello di eroe e anti-eroe e
anche di protagonista: perché Victor è la voce narrante, ma
protagonista della sua vita e della sua storia non lo è quasi mai.
Se non alla fine. Se non dopo il colpo di scena finale, quando rimane
il nulla. E dopo il nulla si potrebbe costruire qualsiasi cosa.
“L'arte non nasce mai
dalla felicità”. Palahniuk spara questa portentosa sentenza entro
le prime tre pagine del libro. Ed è subito chiaro che l'arte è un
percorso e mai un arrivo. Che l'arte è soprattutto figlia del nulla
e che si impara un po' ovunque, tra i libri, dal sesso o tra i letti
di un ospizio.
Lo stile di
Palahniuk è questo. Il nichilismo. Scrittura asciutta, diretta, tagliente:
Palahniuk è talmente diretto e tagliente che fa male. Toglie tutti
gli orpelli. Niente aggettivi. Niente avverbi. Frasi ridotte
all'osso, frasi sincopate, punteggiatura ravvicinata e dal ritmo
incalzante. Palanhiuk ha creato un non-stile, quello dei montaggi
veloci al cinema, quello del parlato quotidiano e colloquiale, quello
dei gesti indescrivibili, dei tic inafferrabili, del battito di
ciglia. Palahniuk non si perde in troppi giri di parole, né usa
paroloni ad effetto – nessuna sintassi complessa, nessuna parola
ricercata.
Eppure, allo sguardo
d'insieme, il suo stile è uno dei più complessi della letteratura
contemporanea. Palanhiuk decostruisce l'arte dello scrivere, tornando
alle origini, ai primi racconti orali, quelli degli epiteti e delle
ripetizioni – molte frasi tornano con la stessa struttura a
cadenzare l'intero racconto.
Ciò che emerge non è la
cultura della parola scritta, ma l'oralità di uno scrittore che fa
molte letture pubbliche. Di uno che non ha solo studiato
all'università, ma ha fatto anche il meccanico e il volontario tra i
malati terminali. Palahniuk ti insegna una cosa e ogni scrittore
dovrebbe tenerla a mente: che scrivere non si impara solo dai libri.
La scrittura di Palahniuk non è solo quella di anni di studio
universitario. La sua scrittura viene dalla strada. Ed è questo che rende uno
scrittore possibile rappresentante di un'era: quando la sua capacità di
scrivere non si perde in intellettualismi ma è figlia del guardare,
riportare, interpretare. Quando lo scrivere non è più solo
scrivere, è vivere. Quando si chiudono i libri e l'arte della
scrittura diventa l'arte dei rumori, degli occhi, del tatto,
dell'odorato. Quando l'arte della scrittura nasce dai testicoli e
dalle ovaie ed è una scossa di adrenalina.
Quando conosci la
grammatica, quando conosci la letteratura, la fase successiva della
paroladipendenza è vivere. A quel punto, sai raccontare anche il
non-racconto e puoi dare significato a qualsiasi cosa. Puoi rendere
eterno l'attimo di un rapporto sessuale. Puoi riuscire a concepire
dal nulla, anche dal sesso che nulla vuole concepire. Puoi creare da
zero e puoi creare quello che vuoi.
“L'arte non nasce mai
dalla felicità” è l'assioma da cui Palahniuk parte. La
conclusione è: “Qui, in mezzo alle rovine e al buio, quello che
stiamo costruendo potrebbe essere qualsiasi cosa.”
“Compatto”,
“coerente”, “adrenalinico” sono tutte parole, più o meno
esatte, che vengono in mente. “Geniale” è forse quella che
Palahniuk meno amerebbe, ma è l'ultima che penseresti una volta chiuso
il libro.
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