Il Grande Gatsby, di Francis Scott Fitzgerald
Autore: Francis Scott Fitzgerald - Traduzione: Fernanda Pivano - Casa Editrice: Arnoldo Mondadori
Finito di leggere, de Il Grande Gatsby rimane nulla. All'ultima pagina, tutto svanisce come in una nuvola di cenere, puf, finito, non c'è stata storia, via i sentimenti, i nomi e i volti dei personaggi si cancellano come i disegni sul bagnasciuga.
Eppure, questo nulla che rimane non è davvero un nulla. Rimane un nulla disturbante, doloroso, che mette a tacere ogni speranza e azzera le aspettative.
Il nichilismo sprezzante e disincantato di Fitzgerald vince su ogni cosa. Ed è proprio quel nulla ad essere il nocciolo della questione, il vero protagonista del romanzo. Non è importante la trama - esilissima, quasi assente - né è importante l'io narrante Nick Carraway (ci fosse o non ci fosse stato, sarebbe stato uguale...), né interessano i capricci di Daisy o chi fosse realmente Jay Gatsby. No, per Fitzgerald l'importante è che i lettori si trovino col nulla in mano, come se avessero gettato il loro tempo migliore per leggere pagine completamente bianche.
Il nulla: Fitzgerald ti spoglia, ti scarnifica, ti fa capire quello che non vogliamo mai capire, che la vita è nulla. Lo dice con una lucidità feroce e a volte cinica, fastidiosa, scorretta, immorale per tutti coloro che si foderano gli occhi di illusioni.
Ecco, le illusioni, le altre protagoniste del libro. Le illusioni, quelle più tristi e macabre, si dibattono tra feste patinate e chiacchiericcio vacuo, tra complimenti falsi e scalpiccio inutile di scarpe da ballo. Le illusioni bevono fino al coma etilico, dimenticano tutto della sera precedente, si alzano stonate e cercano di lavorare con quell'intontimento che prolunga la festa ma che, in realtà, vuole prolungare qualcos'altro: l'illusione di vivere.
Cosa sia vivere, Fitzgerald non lo sa. O forse lo sa benissimo. Vivere, per lui, a ventinove anni, quando pubblica l'impeccabile analisi dei suoi tempi, vivere, per Fitzgerald, è passare da una festa all'altra, ubriacarsi, scrivere nei momenti di lucidità, perdersi nelle improvvisazioni jazz, trascinare la moglie instancabile e schizoide da un posto all'altro, gettarsi nel cinema se qualche produttore di bianco vestito con una vuota fanciulla al seguito propone la sceneggiatura del secolo; vivere ha una faccia e poi un'altra. Vivere, per Fitzgerald, che a ventinove anni aveva già capito cosa sarebbe accaduto alla soglia dei trenta, vivere, per lui, è trovarsi lucidamente faccia a faccia con la realtà. E quando la realtà ti guarda e vedi che dietro non c'è nulla, neppure un viso buono che si ricorda di te al tuo funerale, be': che puoi fare se non scrivere di quel nulla? Esorcizzarlo, come una festa di Jay Gatsby?
È proprio questo che fa il grande Jay: festeggiare per assopire il nulla, inseguendo un sogno - quello di vivere un amore, quello di vivere una vita piena e non solo piena di illusioni. Scrivere non è molto diverso. Scrivere è come una festa per la mente, scrivere è dire: ora controllo la realtà, anche se solo per un momento.
E Fitzgerald decide di scrivere di un fantasma, di un uomo che passa come una bolla di sapone, attira tutti, scoppia, a nessuno lascia niente, a Fitzgerald lascia qualcosa: il motivo per scrivere un libro. No, abbiamo sbagliato. In fondo, scrivere non è proprio come una festa di Jay Gatsby: scrivere aiuta a fermare anche il nulla. Un potere più grande di questo non esiste.
Scrivere ferma l'istante e Fitzgerald lo insegue senza sosta, veloce, con la sua prosa essenziale, ridotta all'osso, incalzante, quasi jazz, una prosa che salta periodi, frasi, momenti, scene pur di inseguire il tempo e di donare a noi poveri lettori quel po' di tempo fermo. Fermo come un fotogramma: assistere all'istante e non capire quasi quello che c'è dentro.
Fitzgerald ha ancora da insegnare, sia per ciò che racconta sia per come lo racconta. Prendere in prestito un istante della vita di un uomo e, da particolare, renderlo universale, renderlo attuale in ogni epoca è la lezione da cui tutti dovrebbero attingere - scrittori e lettori. Fitzgerald narra con uno stile che sembra sortito dalle penne più moderne, che sembra uscito fuori dalla velocità della tastiera di un computer - e questo quanto rende vecchi tutti noi che ci ammazziamo ogni giorno di parole! Eppure Fitzgerald ha scritto il suo capolavoro negli Anni Venti, a neppure trent'anni: un povero vecchio bastardo proiettato in quell'evanescente e illusorio futuro che indietreggia, "risospinto senza posa nel passato" ma moderno proprio perché in grado di raccontare l'istante che fugge.
Finito di leggere, de Il Grande Gatsby rimane nulla. All'ultima pagina, tutto svanisce come in una nuvola di cenere, puf, finito, non c'è stata storia, via i sentimenti, i nomi e i volti dei personaggi si cancellano come i disegni sul bagnasciuga.
Eppure, questo nulla che rimane non è davvero un nulla. Rimane un nulla disturbante, doloroso, che mette a tacere ogni speranza e azzera le aspettative.
Il nichilismo sprezzante e disincantato di Fitzgerald vince su ogni cosa. Ed è proprio quel nulla ad essere il nocciolo della questione, il vero protagonista del romanzo. Non è importante la trama - esilissima, quasi assente - né è importante l'io narrante Nick Carraway (ci fosse o non ci fosse stato, sarebbe stato uguale...), né interessano i capricci di Daisy o chi fosse realmente Jay Gatsby. No, per Fitzgerald l'importante è che i lettori si trovino col nulla in mano, come se avessero gettato il loro tempo migliore per leggere pagine completamente bianche.
Il nulla: Fitzgerald ti spoglia, ti scarnifica, ti fa capire quello che non vogliamo mai capire, che la vita è nulla. Lo dice con una lucidità feroce e a volte cinica, fastidiosa, scorretta, immorale per tutti coloro che si foderano gli occhi di illusioni.
Ecco, le illusioni, le altre protagoniste del libro. Le illusioni, quelle più tristi e macabre, si dibattono tra feste patinate e chiacchiericcio vacuo, tra complimenti falsi e scalpiccio inutile di scarpe da ballo. Le illusioni bevono fino al coma etilico, dimenticano tutto della sera precedente, si alzano stonate e cercano di lavorare con quell'intontimento che prolunga la festa ma che, in realtà, vuole prolungare qualcos'altro: l'illusione di vivere.
Cosa sia vivere, Fitzgerald non lo sa. O forse lo sa benissimo. Vivere, per lui, a ventinove anni, quando pubblica l'impeccabile analisi dei suoi tempi, vivere, per Fitzgerald, è passare da una festa all'altra, ubriacarsi, scrivere nei momenti di lucidità, perdersi nelle improvvisazioni jazz, trascinare la moglie instancabile e schizoide da un posto all'altro, gettarsi nel cinema se qualche produttore di bianco vestito con una vuota fanciulla al seguito propone la sceneggiatura del secolo; vivere ha una faccia e poi un'altra. Vivere, per Fitzgerald, che a ventinove anni aveva già capito cosa sarebbe accaduto alla soglia dei trenta, vivere, per lui, è trovarsi lucidamente faccia a faccia con la realtà. E quando la realtà ti guarda e vedi che dietro non c'è nulla, neppure un viso buono che si ricorda di te al tuo funerale, be': che puoi fare se non scrivere di quel nulla? Esorcizzarlo, come una festa di Jay Gatsby?
È proprio questo che fa il grande Jay: festeggiare per assopire il nulla, inseguendo un sogno - quello di vivere un amore, quello di vivere una vita piena e non solo piena di illusioni. Scrivere non è molto diverso. Scrivere è come una festa per la mente, scrivere è dire: ora controllo la realtà, anche se solo per un momento.
E Fitzgerald decide di scrivere di un fantasma, di un uomo che passa come una bolla di sapone, attira tutti, scoppia, a nessuno lascia niente, a Fitzgerald lascia qualcosa: il motivo per scrivere un libro. No, abbiamo sbagliato. In fondo, scrivere non è proprio come una festa di Jay Gatsby: scrivere aiuta a fermare anche il nulla. Un potere più grande di questo non esiste.
Scrivere ferma l'istante e Fitzgerald lo insegue senza sosta, veloce, con la sua prosa essenziale, ridotta all'osso, incalzante, quasi jazz, una prosa che salta periodi, frasi, momenti, scene pur di inseguire il tempo e di donare a noi poveri lettori quel po' di tempo fermo. Fermo come un fotogramma: assistere all'istante e non capire quasi quello che c'è dentro.
Fitzgerald ha ancora da insegnare, sia per ciò che racconta sia per come lo racconta. Prendere in prestito un istante della vita di un uomo e, da particolare, renderlo universale, renderlo attuale in ogni epoca è la lezione da cui tutti dovrebbero attingere - scrittori e lettori. Fitzgerald narra con uno stile che sembra sortito dalle penne più moderne, che sembra uscito fuori dalla velocità della tastiera di un computer - e questo quanto rende vecchi tutti noi che ci ammazziamo ogni giorno di parole! Eppure Fitzgerald ha scritto il suo capolavoro negli Anni Venti, a neppure trent'anni: un povero vecchio bastardo proiettato in quell'evanescente e illusorio futuro che indietreggia, "risospinto senza posa nel passato" ma moderno proprio perché in grado di raccontare l'istante che fugge.
Commenti
Non vedo l'ora - se mai la farai - di leggere la tua recensione sul film!
Un abbraccio.
@Veronica: spero di vedere presto il film!Il periodo è un po' ingolfato, ma sono molto curiosa di vedere cosa ha combinato Luhrmann!
@Kelvin: verissimo. Questo è il bello di certe opere, ti parlano dei loro tempi e poi, come dici tu, sono attuali anche dopo duemila anni. E, da una parte, meno male che quella luce verde riesce ad emergere, nonostante tutto...
Dopo aver letto questo tuo post mi è venuta un forte desiderio di leggerlo :)l'ho comprato dato il gran successo del film..ma prima dovevo assolutamente leggere il libro da cui è tratto!