Fight Club - Chuck Palahniuk
Autore: Chuck Palahniuk - Anno: 1996 - Traduzione: Tullio Dobner - Casa Editrice: Mondadori
Noi siamo il nostro nome.
Noi siamo la nostra famiglia, la nostra casa, i nostri mobili. Siamo
il nostro lavoro, la nostra laurea, i nostri amici.
Noi siamo i giornali che
leggiamo.
Noi siamo le nostre foto
e la nostra anima.
E invece no.
Palahniuk rende negativa
ogni frase, perché vuole arrivare al vero noi siamo (e basta).
Noi non siamo il nostro
nome. Non siamo la nostra famiglia. Non siamo la nostra casa, non
siamo i nostri mobili artistico funzionali. Non siamo il nostro
lavoro, né la nostra laurea. Non siamo noi in quelle foto.
Noi non siamo neppure la
nostra invisibile e ricercata anima.
Fight Club è il primo
passo di Palahniuk verso l'azzeramento dell'essere umano. Se in
Soffocare, alla fine, solo nell'ultimissima frase, si scorge la
possibile costruzione di qualcosa, in Fight Club si procede per
eliminazione e azzeramento.
Dell'essere umano,
ovviamente.
Un essere umano talmente
spersonalizzato che non ha neppure un nome. Un essere umano che
racconta e un nome deve inventarselo, così come deve inventarsi una
vita proiettandola fuori di sé.
Se ci pensiamo bene, cosa
rimane di noi? Di noi qua, ora, in vita, quotidianamente? Portiamo un
nome, portiamo abiti addosso, portiamo un titolo di studio, una
qualifica, occupiamo un posto di lavoro, abitiamo una casa. Ma il
mobile dell'Ikea, fatto in serie e che tutti possiedono, non ci
distingue dagli altri. La camicia di quella marca, l'automobile di
quella casa, il taglio di capelli, quella laurea o quel diploma che
tutti hanno a che portano? A nulla, perché non dicono nulla di noi:
il minimo comune denominatore distrugge l'uomo – dice Palahniuk.
Per questo bisogna
arrivare davvero in fondo.
E arrivare in fondo, per
il buon Chuck, non è crogiolarsi in chissà quali pensieri – anche
se lui lo fa e lo fa inventando filosofie stralunate e coerenti.
Arrivare in fondo
significa arrivare al sangue e alla carne.
Cosa c'è di meglio di un
fight club, allora? Si combatte senza camicia e senza scarpe. Si
combatte finché i combattenti non dicono basta. E la prima regola
del Fight Club è che non si parla del Fight Club. La seconda regola
del Fight Club è che non si parla del Fight Club. Le parole sono
solo tautologie, autoreferenze incomprensibili talvolta. Ma il corpo
umano è irripetibile.
E allora, ecco sangue che
sgorga, denti spezzati, ossa che si rompono, occhi neri, buchi che si
aprono sulle guance e che non si rimarginano. Il corpo è l'unica
cosa che possediamo. Ed è l'unica che possiamo analizzare. Se Victor
Mancini lo analizza dal punto di vista sessuale, il nostro narratore
senza nome lo fa picchiando e facendosi picchiare: l'unica cosa che
ti fa davvero sentire vivo.
Non c'è un fine nel
picchiarsi. Non un obiettivo. Solo caos. Come quel progetto che nasce
per osmosi dal Fight Club. Il Progetto Caos vuole azzerare la società
e tutte le sue regole, tutto ciò che impone, che regala, che
inventa. Perché tutto è inutile. Potremmo dire che del Progetto
Caos abbia fatto parte anche la mamma di Victor Mancini, che passava
da una costa all'altra degli Stati Uniti per distruggere le sicurezze
americane.
Pasolini diceva che il
montaggio di un film è come la morte: è quel qualcosa che mette
fine al caos della realtà (e del girato) ma che, allo stesso tempo,
dà ad essa il suo significato più grande e profondo, quello finale.
Ed è ciò che fa
Palahniuk. Lo dice: solo in morte abbiamo un nome, una storia, una
vita da raccontare. La morte è il primo passo verso l'immortalità.
Il Progetto Caos è anarchia allo stato puro, per quanto sembri
essere un'organizzazione capillare e ferrea. Solo mettendo fine alle
cose si annulla il caos e si è.
Eppure Palahniuk non si
ferma al corpo. Sarebbe ingiusto dire che la sua poetica e la sua
scrittura siano solo carnali. Semmai, il corpo è il tramite per
parlare di cose davvero profonde e impalpabili.
Come la dissociazione
dell'individuo nella società dei consumi. Come l'inafferrabilità
della propria personalità. Fight Club è un saggio ontologico.
Palahniuk cerca l'Essere dell'uomo, non lo trova, va a fondo,
percorre strade alternative. Parte dal caos, arriva al caos, in una
continua distruzione dell'uomo e della scrittura. Solo dalla
distruzione, dall'incrinatura di tutte le cose che hanno una forma,
possiamo vedere cosa c'è sotto.
Eppure, ancora una volta,
nel caos più totale, nel nichilismo più totale, Palahniuk dimostra
di saper padroneggiare l'arte dello scrivere con coerenza e
cognizione. Il suo stile è complesso, studiato in ogni minimo
dettaglio, nessuna parola in libertà. I testi di Palahniuk sono
canzoni. Ci sono le strofe, i bridge, i ritornelli. Eppure a ogni
ripresa c'è un minimo di cambiamento, tutto si ripete, ma nulla si
ripete mai uguale a se stesso e quando qualcosa si ripete in maniera
identica, viene posta in contesti diversi. Se questo provoca
stordimento e straniamento, allo stesso tempo porta il lettore
altrove e gli fa abbandonare il porto sicuro del
soggetto-verbo-complemento. Anche la frase canonica, in fondo, può
rivelarsi falsa, una conquista umana ormai ripetitiva, banale, che
non dimostra, né racconta, né esprime più nulla di nuovo.
Sovvertiamola, questa
frase. E, allo stesso tempo, creiamo uno stile: che magari qualcun
altro, tra una, due, tre, venti generazioni distruggerà a sua volta.
Commenti
Il problema è se mi deprimo troppo, leggendo Palahniuk ...
Buona estate.