Wolverine - L'Immortale
Titolo originale: The Wolverine - Anno: 2013 - Nazionalità: USA/Giappone - Genere: Action/Fantasy/Comic - Regia: James Mangold
Una cosa appare certa: la
Marvel si avvale sempre degli sceneggiatori migliori. Questo vale, in
primis, per le proprie produzioni a fumetti. È praticamente
impossibile aprire un albo Marvel e trovare una storia sceneggiata
male. Certo, non tutte hanno la stessa caratura e alcune spiccano su
altre, ma la morale della favola è una soltanto: senza una buona
costruzione della storia non si va lontano. Tra le miriadi di storie
realizzate dalla Marvel, ad esempio, c'è il filone Ultimates: alcuni
albi dovrebbero essere presi come libri della vita per gli aspiranti
sceneggiatori che vogliono imparare a costruire storie complesse e
ben articolate, ma soprattutto a dar vita a personaggi dalla
psicologia e dai comportamenti credibili e verosimili.
In Wolverine –
L'immortale avviene praticamente la stessa cosa. A fronte di una
valanga di cinecomic – la maggior parte tutti targati Marvel – la
casa di fumetti non ha dimostrato quasi nessun segno di stanchezza,
costruendo con cura un team validissimo. Già i nomi degli autori originali della storia dovrebbero far riflettere:
Frank Miller e Chris Claremont, due pietre miliari, rispettivamente classe 1957 e 1950. Di fronte a certe figure, di fronte a carriere secolari, come si fa ancora a dire
che un film come Wolverine non abbia dignità? Forse perché è
l'anima di un certo “cinema commerciale”? Una distinzione simile
può valere da noi, in Italia, dove il cinema d'autore è invisibile,
il cinema di genere è addormentato e si sopperisce alle mancanze con
produzioni che non sono neppure catalogabili come B o Z Movie e di
fronte a cui il vero trash storce il naso. Ma negli Stati Uniti, dove
ogni spazio del mercato (dal trash all'esperimento) è coperto,
simili considerazioni decadono.
Tra gli sceneggiatori
figurano tre che, da sempre, si occupano del cinema action:
Christopher McQuarrie, Mark Bomback e Scott Frank. A questo si
aggiunge il regista: James Mangold (in origine doveva essere Darren
Aronofsky, che ha abbandonato la direzione per motivi personali).
Il progetto di una
gigantesca casa editrice/produttrice come la Marvel è proprio
questo: partire da un lavoro grafico che porta nomi di qualità
(Miller/Claremont), avvalersi di sceneggiatori/adattatori che
conoscono i segreti dell'action e del thriller
(McQuarrie/Bomback/Frank), consegnare il tutto ad un regista che non
è solo mestierante di cinecomic, ma che in passato si è misurato
con i generi più diversi (Kate & Leopold e Quando l'amore brucia
l'anima, solo per citarne due agli antipodi).
Il risultato è un film
molto compatto, dalla sceneggiatura di ferro ed estremamente
classica. La struttura di genere c'è tutta: l'eroe che non vuole più
fare l'eroe, tormentato da un passato doloroso (bellissima la
macrosequenza iniziale, costruita come un sogno nel sogno); l'evento
improvviso che lo costringe a tornare in carreggiata; la riflessione
a tu per tu con il proprio corpo e la nuova realtà; la bella da
salvare e da baciare; il colpo di scena; il last minute rescue.
Insomma, questo è un film davvero fatto di adamantio: non c'è un
buco scoperto, non ci sono momenti di stasi, nonostante i dialoghi
abbondino e non ci siano scene catastrofiche.
Può darsi che il calo
che molti hanno visto in Wolverine sia dovuto proprio a questo: il
film si discosta da tutti i cinecomic usciti nel corso della
stagione 2012/2013, poiché non vi sono distruzioni di massa, né
sequenze di ampio respiro. La Marvel, con Wolverine, ritorna al
corpo al corpo e all'arma bianca, proponendo il classico
combattimento di una volta in terra nipponica con acrobazie e danze
lungo corridoi e luoghi chiusi – spesso viene fatto il verso a
certo cinema cinese/giapponese, con qualche vago riferimento ai topoi dei
manga e con una lontana eco di Kill Bill vol I. Tutto il film – è
chiaro – si regge su un attore fisicamente monumentale come Hugh
Jackman, anche lui in grado di passare con disinvoltura da un ruolo
all'altro – solo quest'anno, ha interpretato il più classico dei
classici cantando, Jean Valjean, e uno degli eroi novecenteschi,
Wolverine appunto. Ma Hugh Jackman è stato anche il compassato assassino di
Scoop e l'elegante lord di Kate & Leopold. E anche avvalersi di
un attore che va dalla commedia, all'action, al teatro è un valore
aggiunto indiscusso per una casa come la Marvel.
Il punto è questo.
Wolverine fa riflettere. È un film che ti tiene incollato alla
sedia, non ti lascia un attimo di respiro, ti fa credere ciecamente
che possa esistere un mondo fatto di mutanti e di uomini che cercano
l'immortalità – te lo fa credere e tu ci credi, sì, perché il
team produttivo di Wolverine cala una storia tanto fantasy nella
realtà più vera e cruda (tutto il film vale la sequenza iniziale
dello sgancio atomico su Nagasaki). Ma perché un film del genere,
tanto astruso quanto credibile, è così ben confezionato? Perché
dietro, a lavorarci per anni, ci sono state delle eccellenze. Quelle
eccellenze non sono adolescenti – perché il senso comune dice che
il mondo del fumetto è roba per adolescenti - quelle
eccellenze hanno dai quarant'anni in su. Hanno una laurea,
hanno studiato mescolando teoria e pratica. Si sono applicati senza
fossilizzarsi, perché hanno allenato la loro capacità
artistica/tecnica con diversi generi e diverse esperienze.
È uno stile produttivo
cinematografico (e non solo) da cui bisognerebbe solo imparare.
Eliminando la maschera degli snob.
Perché il cinema è
anche questo.
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