Il Lato Positivo
Titolo originale: Silver Linings Playbook - Anno: 2012 - Nazionalità: USA - Genere: Commedia/Drammatico - Regia: David O. Russel
Pat e Tiffany soffrono di
disturbi mentali: lui bipolare, finito in un ospedale psichiatrico
perché ha quasi ucciso l'amante della moglie; lei giovane e
bellissima vedova sessuomane. Intorno, una schiera di personaggi
apparentemente normali, eppure più svitati dei due protagonisti.
L'unica differenza, semmai, è in questo: Pat e Tiffany non hanno
filtri, dicono sempre tutto quello che pensano; gli altri, invece,
pur soffrendo, cercano di rimanere nei ranghi.
Ovvio: chi dice la verità
e non ha regole, chi si lascia prendere dall'istinto non può che
essere considerato diverso. Pat e Tiffany scontrano violentemente le loro vite e dal loro
strampalato rapporto nascerà la possibilità di una
terapia. E l'unica terapia per chi soffre di disturbi mentali è
l'amore, la tranquillità e la verità. Condividere con qualcuno ciò
che di più intimo e personale abbiamo dentro, senza che l'altro ci
giudichi e senza il timore di un giudizio, è l'anticamera della
sanità mentale. Laddove il mondo intorno inizia ad additare, allora
il sano diventa matto, il normale diventa diverso. Di
fronte a ciò, le medicine o le terapie canoniche possono molto poco.
Non è un caso, ad
esempio, che Pat tragga molto più giovamento quando trova il suo
psicanalista in tenuta da tifoso di football, con la maglia del cuore
e la faccia truccata, piuttosto che nello studio del medico, dove il
terapeuta è terapeuta. Allo stesso tempo, Pat e Tiffany trovano
giovamento nel ballo, ma non nel ballo canonico: il loro “stile
libero” non è quello impostato dei ballerini professionisti, fatto
di passi e movimenti precisi, veloci e nervosi; stile libero, per
loro, significa ballare istintivamente, seguendo il sangue e le
pulsazioni di cuore e musica.
Tutto il
film gioca sul dissolvimento dei ruoli, delle regole e delle
categorie, sulla rottura degli stereotipi sociali e sulla
comunicazione ad ogni costo. Il lato positivo sembra dirci che non
esiste alcuna differenza tra diverso e normale, tra matto e sano:
tutti, in fondo, siamo diversi l'uno dall'altro, per biologia,
carattere, ispirazioni e aspirazioni. Importante è non far diventare la diversità
una malattia, cosa che si evita solo se si è circondati dalle
persone giuste con la lungimiranza necessaria.
Il film ha un tema
esplosivo, ma in alcune parti funziona poco. Tutto il lungometraggio regge sulle
interpretazioni folli ma ben calibrate di Bradley Cooper (una
piacevole sorpresa!) e di Jennifer Lawrence. Lui usa a dovere la faccia
asimmetrica che la natura gli ha dato, lei è versatile, mai
monotona, mai banale; entrambi hanno saputo
dare bene voce ai gesti, ai comportamenti e alle parole del disturbo mentale, senza mai risultare scontati stereotipi. Anche Robert De Niro, nel ruolo del padre
ossessivo-compulsivo non diagnosticato, sa districarsi bene nella
parte. Ma, del resto, De Niro è sempre monumentale.
La regia è piuttosto
robusta: la macchina da presa si fa schizofrenica, bipolare,
ossessiva-compulsiva, sorreggendo e ampliando l'interpretazione degli attori.
La costruzione della scena non si limita alla sola macchina a mano
traballante, ma propone anche un montaggio veloce e prossimo ai volti
degli interpreti e si diletta in false zoomate psichedeliche, che
descrivono lo stato confusionale dei personaggi nei maggiori momenti
di crisi.
Il lato positivo –
concedetemi il gioco di parole – non è esente da lati
negativi. La sceneggiatura, a tratti, risulta sbilenca e risente
della letterarietà del romanzo da cui è tratta. Alcune sequenze hanno troppo peso e risultano inutili nell'economia del film. Se i dialoghi,
lunghi e schizzati, tra Pat e Tiffany hanno senso, poiché la parola
istintiva e non controllata è il fulcro delle due personalità, non
si può dire la stessa cosa dei restanti. Concentrarsi troppo anche
sui dialoghi degli altri personaggi risulta pesante, tanto che
molte scene si ripetono uguali tra loro. Ad esempio, la
sequenza della martingala appare estenuante; basta vederla in
rapporto al finale. Il finale, molto hollywoodiano e piuttosto
scontato se confrontato con il resto del film, nonostante tutto,
funziona: giocato su pochi dialoghi, su inquadrature efficaci che parlano
da sole e sul ballo dei due protagonisti, reso più emotivamente che descrittivamente, risulta compatto e verosimile. La sequenza della martingala arranca, inciampando su un eccessivo spezzettamento dello spazio, su frasi ripetute fino allo stremo e su un ritmo poco calibrato.
Il regista avrebbe dovuto affidarsi maggiormente al labor
limae, lasciare la robusta intelaiatura del rapporto tra Pat e
Tiffany e misurare tutto il resto. Anche perché, così facendo, ha
rischiato di far affondare Cooper e Lawrence nel marasma generale dei
mille personaggi e dei mille dialoghi e se questo non è avvenuto è solo grazie alla bravura dei due attori.
Come Cooper e Lawrence hanno optato per la misura, senza scadere nel macchiettistico, anche il regista avrebbe dovuto fare altrettanto. L'opera è godibile e si
guarda con leggerezza; ma Russel avrebbe
potuto osare di più.
Commenti
no, io ho visto solo quelli positivi :)
Però, a mio gusto, manca qualcosa. Forse qualche minuto in meno e sarebbe apparso più compatto.