Django Unchained



Anno: 2012 - Nazionalità: USA - Genere: Western - Regia: Quentin Tarantino

Django Unchained è un capolavoro. Difficile dare sentenze così perentorie, specie a caldo, senza che siano passati gli anni necessari per formulare un giudizio meno soggettivo e istintivo possibile. Ma non ci si può esimere dal pensare che Quentin Tarantino, stavolta, abbia girato il suo maledetto capolavoro.

Tutto torna in maniera perfetta: sceneggiatura e sua verosimiglianza, regia, ritmi, recitazione, montaggio, fotografia. Tarantino non sbaglia una virgola e ti tiene incollato alla poltrona per tre ore – senza sentire il peso del tempo.

Avete presente quei film western che ti si attaccano addosso e, mentre li guardi, hai la sensazione di cavalcare col protagonista, di stringere in mano un fucile, di sentire il vento in faccia? Django Unchained è questo, un mix perfetto e letale di avventura, action, contenuti forti, sentimenti liberatori, emozioni uniche. Tarantino riesce perfettamente a rimanere in bilico tra il western, la classicità del genere, la sua inconfondibile autorialità. Se, da un lato, viviamo l'avventura come solo i bambini sanno fare quando giocano (primo principio di ogni film western), dall'altro lato siamo consapevoli di assistere ad un'opera curata, dettagliata, attenta, consapevole.

Tarantino lo sa bene. Lo sa così bene che, per la prima volta davvero, dimostra di essere un autore totalmente maturo. Forse, in questo film sperimenta meno che in altri, ma è così che deve essere: sia perché il genere western ha dei codici ben precisi, sia perché ormai Tarantino ha assorbito la sperimentazione degli anni passati e l'ha fatta propria girando un film di una perfezione sconcertante: riuscendo ad essere autore riconoscibile e unico anche maneggiando un genere come il western.


Tarantino ha delle fonti di ispirazione notevoli: Leone e Corbucci, la Trilogia del Dollaro e Django. Sorpattutto Django. E lo vediamo già dalla sequenza d'apertura, durante la quale risuona il tema di Django del 1966, composto da Luis Bacalov. Solo che, stavolta, non c'è un uomo che trascina una bara, c'è una fila di schiavi neri incatenati tra loro e costretti a camminare a piedi nudi, feriti, marchiati, repressi ma rabbiosi.
Entra in scena Tarantino: lo fa inserendo un personaggio monumentale, il dottor Schultz, un tedesco prima dentista e ora cacciatore di taglie. Il dottor Schultz è Christoph Waltz, l'Hans Landa di Bastardi Senza Gloria. Se Landa era un cacciatore di ebrei, razzista sino all'inverosimile, il dottor Schultz, nel 1858, non riesce a vedere la differenza tra bianchi e neri. C'è una sorta di redenzione per Waltz/Landa/Schultz. Schultz è il rovescio della medaglia di Landa e su questo confine è giocato tutto il film di Tarantino: sulle contraddizioni. Nulla, nel mondo, è solo bianco o solo nero. Il bianco può essere nero e viceversa. La metafora del colore della pelle non è casuale e va ben oltre la superficie cromatica.
Schultz libera Django perché lo schiavo lo aiuti a cercare i Brittle Brothers, sui quali pende una succosa taglia. Questo è il primo elemento di originalità, a cui se ne aggiunge un altro potentissimo: Django è nero. Chi ha mai visto "un negro a cavallo”? Nessuno, forse nemmeno al cinema, perché tutti i film western girati sono western di biondi eroi o antieroi, in cui il nemico è sempre messicano o indiano e l'uomo africano non è neppure contemplato.

È una folgorazione: Django ha un magnetismo mai visto, subito ci si identifica con lui, con la sua storia di repressione, libertà ed estremo amore per la moglie Broomhilda. Tarantino costruisce il personaggio di Django passo dopo passo, dalle sue parole sospirate, all'inizio, nel buio di una notte in cui aleggia solo terrore, dal suo corpo nudo piagato dalle scudisciate, fino alla scelta del cavallo, degli abiti, del cappello, della pistola e della sella, oggetti sempre più personalizzati. È così che si costruisce un eroe.



Un eroe che uccide, che spara, che cova vendetta, come ogni buon eroe del Selvaggio West (che in realtà è un Selvaggio Sud). Django ama ma è un duro, recita una parte (quella del negriero) perché è un uomo libero e da uomo libero non ha paura, neppure di sporcarsi. Nel sud più profondo del Mississipi, lo aspetta la moglie, una bellissima donna il cui corpo è sempre messo in mostra negli aspetti più crudeli: torturato, piagato, marchiato, picchiato, martoriato. Tarantino non lesina sulla violenza, come fa sempre, solo che stavolta dietro la sua violenza c'è qualcosa in più. Tarantino ci sciocca e ci fa riflettere. Non passano inosservati i corpi degli schiavi orribilmente stretti in medievali armature adunche. La sua violenza pulp si fa improvvisamente una stretta al cuore, in alcuni casi inguardabile, come la morte di D'Artagnan, uno schiavo destinato alla lotta tra Mandingo. Quella violenza cieca e gratuita, quello splatter che sempre Trantino ci ha dato in pasto, ora si fanno efferati e non sempre mostrabili. Beatrix Kiddo cava un occhio davanti alla macchina da presa alla sua nemica giurata, in Django, un mandingo cava gli occhi al suo avversario ma noi non lo vediamo. È una violenza che si percepisce, non si vede ma si sente scorrere nelle vene: perché quella violenza è stata vera e storica e di fronte a quella violenza non si può ridere, si può solo riflettere. Come riflette il dottor Shultz, un assassino provetto ingaggiato dallo Stato, ma scioccato dalla morte di D'Artagnan, tanto che non ce la fa a rimanere nei ranghi e a rispettare la legge.



Di fronte al cattivissimo e spietato Calvin Candie, il bianco occhi azzurri per eccellenza, non si può che provare vero disgusto. Ma si prova disgusto anche di fronte a quegli schiavi che hanno iniziato a pensare come i bianchi: Stephen è una canaglia, nero cane da guardia dei bianchi che non cambia idea neppure di fronte alle ingiustizie. Così, Tarantino ci porta in un mondo estremamente complicato: un uomo nero a cavallo, eroe indiscusso, affascinante, forte, con la battuta pronta, uno schiavo mai stato schiavo, neppure con le catene; neri che, invece, senza catene non sanno che fare, neri che piegano la testa volutamente, schiavi che amano essere schiavi, schiavi che, di fronte a Django, trovano la forza per lottare; bianchi bastardi che trattano l'umanità intera come un'immensa grande schiava, e uomini bianchi, europei e tedeschi di così larghe vedute impossibili da immaginare nel 1858.
L'umanità è varia e complessa, è una trama indistricabile. Quel binomio bianco/nero di cui parlavamo sopra è la cifra che attraversa l'intero film. Bianco e Nero non sono rispettivamente Bene e Male, come spesso il cinema o la società vogliono farci credere: il Male può essere candido e in apparenza virgineo, mentre il Bene può nascondersi in ciò che più appare fosco. La dissimulazione, il gioco delle parti, la recita, sul palco o nella vita, non ci dicono che questo: che le categorie vengono meno sempre, specie in storie così complesse e epiche.
Nel dircelo, Tarantino costruisce il Mito, quell'Epopea universale che solo il western sa dare. Amore, morte, lotta, ribellione, violenza – la libertà è l'obiettivo, come se Django fosse un novello Prometeo Incatenato, come una nuova versione di Broomhilda e Siegfried, mise en abyme del film.
C'è una scena in cui questo è ben evidente. La cavalcata finale di Django - un fucile in mano e niente sella -  quando l'ex schiavo, letteralmente scatenato, è deciso a tornare a Candyland a riprendersi la moglie. Tarantino indugia su quella cavalcata, con il montaggio, la fotografia e la musica. Quello è il suo climax: Django è definitivamente, indiscutibilmente un Eroe. È uno di quegli eroi di cui, nella storia del cinema, tra cinquant'anni ancora si parlerà: si aggiunge al Biondo di Eastwood o al solitario Django di Corbucci. No. Non è un John Wayne. Django è sulla scia degli spaghetti western. Tarantino è sulla scia degli Spaghetti Western. E, stavolta, lo fa con la più grande umiltà possibile: cita, ma le citazioni si fanno raffinate e non sempre evidenti, hanno più il sapore degli omaggi; si autocita ben poco, riflette su di sé e sul suo cinema meno che in altri film, non è mai esagerato o fuori luogo. Tarantino ha smesso di giocare, ora la sua arte è l'arte di un Maestro. Consapevole di far cinema e al contempo umile. Equilibrio di forma e del contenuto che essa emana.
È indubbiamente questo il tuo capolavoro, Quentin.

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Allora devo vederlo per forza! Un abbraccio. (Tarantino è quello di Kill Bill?!)
Claudia ha detto…
Dopo la tua recensione non posso dire altro se non che ho una gran voglia di vederlo!
Veronica ha detto…
@Maria: sì, Tarantino è quello di Kill Bill. Guarda questo film, non rimarrai delusa. Non ho mai visto commenti positivi così unanimi su un film!

@Claudia: non posso che rinnovare il consiglio. Guarda Django Unchained perché è davvero raro trovare film così perfetti e appassionanti!

Un abbraccio ad entrambe ;)!
Cannibal Kid ha detto…
il capolavoro assoluto di quentin per me è pulp fiction, che credo rimarrà sempre il suo film più simbolico e quello in cui c'è tutto il tarantinismo al 100%.
detto ciò, pure django unchained è a suo modo un capolavoro, ma io sono di parte e per me tutti i film che ha girato sono piccoli o grandi capolavori
Libertè ha detto…
Devo vederlo, già lo so che mi arrabbierò per la faccenda degli oscar....
Vele Ivy ha detto…
Ciao, subito dopo la visione di ieri sera ho letto la tua recensione dal telefonino, non potevo più resistere :-) E' stato bello ritrovare le emozioni della visione e sono concorde con te, nel ritenere questo film un capolavoro. E' proprio quel genere di film che DEVE essere visto al cinema.
Volevo condividere una riflessione che mi è venuta guardandolo: non ti è sembrata anche una critica all'America? L'unico personaggio bianco&buono è il Doc Shultz, tedesco, contrario alla schiavitù e fieramente europeo... infatti penso sia simbolica la scena in cui ingiunge all'arpista di smettere di suonare Beethoven. E' come un gioco di specchi, visto che in "Bastardi senza gloria" lo stesso attore impersonificava tutto ciò che c'è di peggio nella storia tedesca.
Altra chicca che mi ha colpita: la canzone "Ancora qui" del maestro Morricone (io lo amo), cantata dalla voce struggente di Elisa. Mi vengono i brividi ogni volta che la ascolto.
Per te:
http://www.youtube.com/watch?v=gc1v_qnk4iw

Ciao!
Veronica ha detto…
@Marco: sono d'accordo con te. Pulp Fiction è un capolavoro per l'alta percentuale di tarantinismo che contiene. Django è un capolavoro in un altro senso: secondo me è un perfetto incontro, una giusta media, tra esigenze del grande pubblico, esigenza dei fan di Tarantino, autorialità di Tarantino e universalità del contenuto.
In ogni caso, Tarantino è un genio!
Veronica ha detto…
@Libertè: ti do il benvenuto da queste parti! Guarda Django Unchained, merita davvero ;).
Veronica ha detto…
@Vele: carissima, ti ringrazio per aver lasciato le tue belle riflessioni da queste parti. Hai ragione, la scena dell'arpista e di Beethoven è simbolica e, secondo me, neppure troppo semplice da districare. Quella è stata una delle scene più emozionanti, perché proprio sulla musica di Beethoven Waltz ci ha regalato uno dei momenti recitativi più alti dell'intero film (recita solo con gli occhi in primissimo piano!). Lì per lì, ad istinto, mi ha ricordato la scena di Arancia Meccanica in cui Alex è costretto ad ascoltare Beethoven, il suo musicista preferito, mentre sullo schermo scorrono immagini dei campi di concentramento. Devo ancora ragionarci, ma, secondo me, forse un rimando a Kubrick c'è: in quel momento il dott Schulz (un ex nazista, in fondo ;)) ascolta Beethoven e pensa all'uccisione di D'Artagnan. Tra le scene dei due film c'è continuità.
Hai ragione, tutto il film è una critica all'America, una critica neppure poco blanda... l'Europa e l'Africa escono salve dal film... del resto, Tarantino si ispira principalmente al cinema italiano per questo (ed altri suoi) film.
Ti ringrazio per il link alla canzone di Elisa. Un pezzo stupendo, degno del film!
Grazie ancora per avermi suscitato tante altre riflessioni su Django ;).
persogiàdisuo ha detto…
Io non l'ho trovato un capopolavoro, ma un film minore di Tarantino, che non riesce ad appassionare mai davvero. Un film molto buono, ma minore in mezzo a capolavori come Pulp fiction, Kill Bill e Basterds...Come ho scritto da me, è come se dopo ogni capolavoro il film seguente risulti inevitabuilmente minore, così è stato anche per Jackie Brown (secondo me però superiore a questo) o Death Proof. E non è vero che ci siano solo commenti positivi a riguardo.
Veronica ha detto…
Su Jackie Brown e Death Proof siamo d'accordo. E anche sul fatto che Pulp Fiction, Kill Bill (più il primo che il secondo) e Inglorius Basterds siano degli indubbi capolavori.
Di sicuro, Django Unchained è un film tra i più classici e meno sperimentali nella filmografia di Tarantino, ma pur nella sua classicità l'ho trovato perfetto e in grado di entusiasmare. Il capolavoro sta, secondo me, nell'abilità che ha avuto Tarantino nell'aver saputo usare i codici del western in maniera perfetta ma senza tradire se stesso.
E, infine, credo che il mio giudizio su Django sia anche influenzato dal fatto che adoro pazzamente il genere western!
Anonimo ha detto…
Gran bell'articolo, complimenti!
Un piccolo commento su quella che, come hai fatto giustamente notare, è una delle scene più significative dell'intera pellicola:
Django a cavallo senza sella, con un fucile in mano, che cavalca verso la conclusione del film, la sua amata..il montaggio, semplicemente perfetto, ci mostra uno schiavo che osserva Django prepararsi, montare a cavallo e dileguarsi nella prateria. Ecco, in quegli sguardi che lo schiavo rivolge al protagonista c'è tutta la consapevolezza di una libertà possibile..e non a caso siamo nel 1858, a due anni dallo scoppio della guerra civile:come fosse un'anticipazione di ciò che di lì a poco accadrà. Semplicemente sublime, e John Legend aiuta molto:D.
Infine, per rispondere ad alcuni commenti che ho letto, non mi trovo d'accordo con chi dice che Jackie Brown sia un film minore di Tarantino. Django Unchained rappresenta la maturità di Tarantino, ma Jackie Brown ne è l'anticamera:).
Ciao e complimenti ancora!

Pietro
Veronica ha detto…
Caro Pietro, grazie infinite per essere passato di qua e per aver lasciato il tuo contributo! Anche per me Django rappresenta la maturità di Tarantino. Ormai il regista ha fatto proprio il suo stile e sa essere autore senza citare per forza. Credo che molti avvertano Django come un calo di tono perché da Tarantino si aspettano sempre fuochi d'artificio e arditezze formali. Ma, come il vero guerriero è quello che ormai ha interiorizzato la sua spada, così credo che Tarantino abbia assimilato bene il suo modo di far regia. Molto bello il fatto che tu abbia ripreso il discorso della cavalcata finale di Django, quella scena mi ha emozionato come poche altre! A presto e grazie ancora del commento!