Beeteljuice, Beeteljuice
Burton mette nella casseruola, ancora una volta, tutti gli ingredienti che più possono stuzzicare il palato di chi è appassionato del suo cinema.
C’è una strega morta e fatta a pezzi, un po’ rancorosa come la sposa cadavere, un po’ in grado di ricucirsi come Sally; ci sono morti intrappolati; morti che sono andati e che non sono più tornati; morti morti all’improvviso e male, ma che riescono a parlare anche senza testa; c’è chi sfrutta la morte per fare soldi senza credere neanche un po’ all’aldilà; c’è chi con l’aldilà cerca di conviverci senza che questa possa sconfinare troppo nella vita; c’è chi ne fa un’arte; e chi la allontana perché è vero solo ciò che si vede. E poi c’è lui, il nostro spirito un po’ cattivello, un po’ joker, un po’ adulatore, un po’ mistificatore che altro non è che la morte stessa.
Gli ingredienti ci sono e il film funziona. Ma non interessa questo: interessa capire cosa va cercando Burton da tanti anni, di cosa ci vuol parlare, cosa ci vuole comunicare e che sembra sempre rimanere dietro la barriera dei suoi stilemi, delle sue figure dinoccolate e contorte, dei suoi freaks e dei suoi “allontanati”. Con questo secondo capitolo di Beeteljuice, Burton ci dice con la lingua fuori dai denti e senza troppe metafore quello che viviamo ogni giorno e che non vogliamo sentirci dire: che la morte vive con noi. Che fa parte della nostra esistenza. Che spesso viviamo solo pensando a lei, perché pensiamo a qualcuno che non c’è più o perché abbiamo paura di perdere qualcun altro. Una volta, studiando per un esame di Letterature comparate, mi sono ritrovata a leggere un saggio molto interessante che parlava del corpo, dell’arte che usava il corpo come scrittura, del corpo che racconta e che poi muore e che nella morte non racconta né soffre più: perché finche c’è vita c’è anche morte; quando non c’è più vita il pensiero della morte non esiste più.
Ecco, Burton ci dice proprio questo: il pensiero della morte ci accompagna ogni giorno della nostra vita. Facciamo di tutto per allontanarlo: da un semplice lavoro di fatica, al dare vita a capolavori dell’arte. Il punto è che in Beeteljuice, dopo la morte, c’è ancora una forma di morte con una struttura molto simile alla vita. È un mondo pieno di regole, di file, di domande, di richieste; c’è persino una polizia della morte. Perché, no, Burton non si arrende: se ogni giorno della nostra vita pensiamo al caos della morte, allora, possiamo anche esorcizzare il trapasso pensando che, dopo di esso, ci sia un mondo pieno di regole irriverenti e, in fondo, divertenti. E anche se lo scopo è salvarsi da essa, il finale di questo secondo film ce lo ripete fino allo sfinimento (come il tabù del nome del protagonista): il pensiero della morte, Beetljuice, non ci abbandona mai.
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