Strings - Festival Internazionale del Film di Roma
Eccola. Sapevo che l'avrei trovata. La sorpresa di Roma. Nascosta, come immaginavo, nella sezione parallela del Festival, Alice nella Città. Strings.
L'estate tra la fine della scuola e l'inizio dell'università. L'ultima estate da ragazzi, forse quella più problematica. Grace, Jon, Scout e Chris devono prendere una decisione per il futuro, ma al futuro non pensano. La loro vita, fragile, vive nel presente in un continuo ripetersi, in un eterno ritorno di giornate tutte uguali, scandite dall'alcol, dal sesso, dalle sigarette, dal divertimento estremo. Giornate inconcludenti, in cui però appare chiaro il crescendo emotivo dei personaggi, che vivono un disagio interiore complesso, mai completamente esplicato e che si riversa sullo spettatore con tutto il suo pesante carico.
Grace, Jon, Scout e Chris sono individui tra la folla. Come dice Michael, un personaggio del film, sono quelli che, in mezzo al gruppo, ad un certo punto inizi a fissare, sono quelli a cui dai un nome e di cui immagini la storia. La macchina da presa si accende su di loro e li ispeziona sin nel minimo dettaglio, sin negli anfratti più reconditi, che siano i recessi femminili o i liquidi maschili. Le quattro figure, che da sembiante si fanno persone, diventano poi personaggi, la cui psicologia, profondissima, rimane inafferrabile, tanto vario e variabile è l'animo umano di fronte alla vita.
Questa sceneggiatura complessa - eppure apparentemente semplice - esplicata con pochissimi dialoghi, è figlia di un regista e sceneggiatore di appena diciotto anni.
Incredibile pensare che sia vero, specie dopo aver visto il film. Rob Savage, il regista, dimostra di essere, per certi versi, molto maturo a livello tecnico e formale. Per altri versi è molto ingenuo, di quell'ingenuità tipica di chi sta scoprendo l'arte cinematografica sul campo.
Il punto forte è l'uso del sonoro: la musica sostiene gesti e pensieri dei personaggi, le parole si troncano o sfumano in base al loro stato d'animo, i rumori si fanno estremi per costruire il racconto e il senso. La regia si affida al fuori fuoco e al particolare e qui emerge un po' la debolezza del neo regista: tutto il film è fuori fuoco, in penombra o attento al particolare. Anche se questa è la cifra stilistica del regista, avrebbe potuto essere mitigata da momenti più distesi; il rischio è quello di cadere nell'estremo spezzettamento dello spazio dell'inquadratura e di stancare lo spettatore con una costruzione che può divenire caotica. Tuttavia, è pur vero che, più le vicende vanno avanti e si complicano, più l'immagine di Savage si fa inafferrabile e indistinguibile, quasi a corrispondere alla confusione dell'animo dei protagonisti.
Di sicuro, Rob Savage ha tempo per crescere. Se già a diciotto anni dimostra questa maturità - quella di un ragazzo che fa un film dopo averne visti mille al giorno ed essersi imbevuto di tanti stili costruendone uno proprio e personalissimo - cosa potrà fare a trent'anni? Grandi cose, questo è sicuro.
Ne ho parlato anche su Taxi Drivers.
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