Tutto chiede salvezza - Daniele Mencarelli



Non sono mai stata in grado di recensire un libro. Penso che sia impossibile, perché, di fatto, è inutile analizzare un’opera fatta di parole con altre parole. Però, stavolta, ne sento davvero l’esigenza: mi sono trovata di fronte ad un libro che mi ha perforato la carne ed è arrivato a scavare laddove non pensavo si potesse scavare. Il cuore? L’anima? O un sentire complesso, che non ha parole ma a cui, qualcuno, riesce a dare voce? 


In realtà è lo stesso Daniele Mencarelli a essere autore e analista delle proprie parole. E ci sono due passaggi - tra i tantissimi - che racchiudono forse meglio i due poli attorno a cui Tutto chiede salvezza ruota: il ruolo della scrittura e la percezione che il Daniele personaggio, poeta, ha delle cose. I due aspetti non viaggiano mai paralleli: Mencarelli riesce a scinderli, ma entrambi si fondono e confondono, perché la scrittura non può essere scissa dal sentire e il sentire - atroce e catastrofico -  la malattia mentale trovano forma nella scrittura. E il romanzo - o la poesia - hanno il potere di essere catartici per chi legge e “sente”  alla stessa maniera del Daniele ventenne. 


Mencarelli scrive:


“è strana la scrittura, per principiarla occorre prendere una specie di rincorsa, gettarsi a volo d’angelo nel bianco della pagina come i miei amici dalla cabina del papa, quando si è partiti, però, non ci si vorrebbe più fermare, almeno sino a quando non finisce quella particolare elettricità che si è stabilita con tutto ciò che ti chiede di essere cristallizzato in parole.”


E ancora:


“Io non faccio Lettere, leggo poesia per conto mio, conosco Bellezza, Saba, mi piace la poesia onesta, anche a me piace scrivere così, anche perché sennò mia madre non le capisce. E poi con le parole se deve arriva’ all’osso, ce se deve spoglia’, invece tanti poeti me pare che ce se vestono, ce se nascondono dietro.”


Un passaggio sul suo sentire che ho trascritto:


“Non è facile. In estrema sintesi mi sembra che la vita mi pesi più che agli altri. Ma non solo in senso negativo, anche sulle cose belle, mi sembra tutto gigantesco, però gli altri non la vedono così.”


E, infine, ciò che lega il suo modo di vedere il mondo alla scrittura:


“magari la spiego male, ma lì ho capito che la scrittura non è un gioco, ‘na noia come me l’avevano sempre insegnata, ho capito che serve veramente, e che è l’unico mezzo che può racconta’ quello che vedo, che m’esplode dentro.”


Il Daniele Mencarelli ventenne, nella torrida estate del 1994, alle soglie dei mondiali di calcio di USA ’94, è in ospedale per subire un TSO. Sono sette i giorni che lo separano dal ritorno a casa. Probabile che nulla cambierà dopo la sua permanenza in ospedale. Di sicuro, quello che otterrà sarà arricchirsi del sentire delle altre cinque persone che con lui condividono la stanza, storie che Mencarelli narra con un’asciuttezza stilistica da togliere il fiato - e ogni parola, ogni frase, diventa una lama che scava nel lettore.

La scrittura spoglia, mette a nudo: prima lo scrittore, poi chi legge. Questo significa gettarsi a volo d’angelo: scrivere sapendo di spogliarsi, di scavare dentro di sé, di potersi trovare a fronteggiare un ottovolante irrefrenabile di emozioni e sensazioni diversissime e in lotta tra loro. Sì, perché il mondo è enorme e l’autore non fa altro che prendere atto di questa enormità, tanto nel dolore quanto nella felicità. L’enormità è difficile da manipolare, può uccidere: solo plasmarla con le parole può aiutare a non morire. Talvolta, le cose sono così grandi che noi tutti - noi con un sentire comune e normale - non le vediamo e rimaniamo ciechi. Il poeta, invece, sa vederle, si lascia invadere da esse, si lascia travolgere, trafiggere - e soffre, muore. Ma poi, con le parole, sa ricostruirle e ce le sa donare. 


Ripeto: non posso analizzare un romanzo che mi ha squarciato il cuore e massacrato l’anima come Tutto chiede salvezza. Non posso farlo sia perché altre parole, aggiunte a quelle di Mencarelli, sono inutili: finirebbero per vestire anziché per spogliare. E non posso farlo perché in più passaggi, se non tutti, ho sentito mio quello che ha scritto Mencarelli. 


Posso, però, dire cosa ho associato alle parole di Mencarelli usando un linguaggio a me più vicino, quello visivo. 

Le sue parole sono state uno taglio nella tela, come i tagli di Fontana: il tentativo di guardare cosa c’è oltre ciò che vediamo. Qualcuno può vedere una tela rovinata e dire che non è arte; così come qualcuno può leggere il personaggio di Madonnina e pensare che non sia un essere umano. Ma Fontana, in quegli squarci, vedeva la luce passare e, ancor di più, il senso di infinito che si cela dietro l’arte - e così Madonnina diventa il simulacro e il simbolo di tutto un mondo carico di immaginifica sofferenza e di terribile bellezza. 

Ma forse, leggendo Tutto chiede salvezza, più di ogni altro artista è venuto a farmi visita Egon Schiele: i suoi ritratti e i suoi autoritratti dalla pelle scorticata; il sangue, i nervi, il corpo umano letteralmente spogliato. I corpi che diventano campi di battaglia della società e della mente, del mondo e dell’anima, sofferenza e godimento, Inferno e Paradiso in uno scontro continuo. E sotto i lividi, la pelle, il sangue, i nervi, le ossa Egon trova tutto e trova niente, trova l’uomo sofferente messo a nudo e l’anima splendente e infinita. Si sveste, muore, cerca un senso. Lo si trova solo nel farsi attraversare dalla Bellezza.


E qui taccio, perché forse mi sto vestendo troppo.



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