Marcello Fonte - Le Notti Stellate di Dogman
Vedere Dogman dopo aver letto Notti Stellate di Marcello Fonte produce un effetto strano, tutto cinematografico, tutto interno alla finzione e, tuttavia, mai così reale.
Notti Stellate è l’autobiografia di Marcello Fonte, scritta e pubblicata dopo il giustissimo premio come miglior attore ricevuto a Cannes nel 2018. Non è un’autobiografia completa: perché racconta solo l’infanzia dell’attore e si interrompe là dove - nella mia testa - inizia il film.
Marcello, nel libro, racconta di una vita ai margini della povertà, ma mai così carica di possibilità fantastiche. Da bambino, cresce in un posto sperduto della Calabria, figlio di genitori instancabili, che fanno di tutto pur di mandare avanti la baracca e di garantire cibo, vestiti e istruzione ai figli. Marcello è un bambino pieno di energia, una vera e propria peste bubbonica, che passa le sue giornate alla fiumara, il letto di un fiume trasformato in discarica. Là, dove la gente butta oggetti rotti o che non servono più, Marcello scava e trova giochi che stimolano la sua fantasia, ricostruisce oggetti, ne crea di nuovi, ama lavorare con le mani, trovare soluzioni, aggiustare le cose. Nella sua infanzia entra in contatto con i ragazzi - cosiddetti - delle palazzine: un quartiere evidentemente malfamato, in cui abitavano ragazzi perduti, che nulla di buono combinavano durante la giornata. Rischia di perdersi dietro a loro: ma l’amicizia con Carmelino e, soprattutto, la scoperta della musica e lo studio del tamburo, lo portano altrove: a una vita da artigiano, da artista e da attore poi.
Il libro - divorato - ha prodotto in me sensazioni difficili da spiegare, dato che Marcello Fonte è nato vicino al paese dei miei nonni: ho ritrovato un dialetto e una serie di modi di dire che, per me, sono praticamente lingua madre. La fiumara, poi, cosi sempre presente nei racconti dei miei nonni e di mia madre. E alcuni episodi, che mi hanno riportato direttamente all’infanzia di mio nonno.
Che dire: un libro, sì, autobiografico, ma sempre libro e quindi costruito e in qualche modo finzionale, che però per me è profondamente reale e realistico.
Ma poi è successo un altro fatto, ho visto Dogman di Matteo Garrone il film che ha consacrato Marcello Fonte, il giorno dopo aver finito il libro. E si è creato un corto circuito fantastico.
Il film trae liberamente ispirazione dai fatti del canaro della Magliana, ma ne esce fuori una storia che, forse, sarebbe giusto dire, con quel fatto di cronaca non ha più nulla a che fare: diventa tutta una storia interna al cinema e alla finzione stessa.
Marcello Fonte interpreta Marcello, un tolettatore di cani che ha il suo negozio in un luogo di periferia, sperduto, così fatiscente da essere il surreale scenario di un horror. È un luogo chiuso al resto del mondo, che non sembra esistere se non al di fuori di quel quartiere e, aggiungerei, al di fuori del cinema stesso. Marcello è Marcello, è adulto, e sembra vivere e lavorare in quelle palazzine (la scenografia mi è testimone) che da bambino ha frequentato e da cui è fuggito in tempo. Sì, perché le palazzine di Dogman sono infestate da un bullo che ruba, spaccia e si fa di droga e lo stesso Marcello detiene un po’ di droga per tenere a bada l’amico che lo trascina per rapine e sniffate. In altre parole, la prima sensazione che ho avuto vedendo il film è che quelle palazzine e quel negozio da tolettatore fossero il futuro alternativo che sarebbe potuto toccare in sorte a Marcello Fonte se l’arte - e la musica - non lo avessero salvato in tempo, da bambino.
Le palazzine (nel film) per Marcello significano droga, furti e carcere; significano essere solo; significano mandare avanti la vita con ogni mezzo, pur di poter regalare alla propria figlia qualche momento di normalità, qualche momento speciale, come ogni padre vorrebbe. Ma spesso la realtà è una prigione e uscirne è impossibile: è la realtà stessa, con i suoi meccanismi che si ripetono, incastrati e ridondanti, a impedirti di staccarti da essa. Come lo scoglio di verghiana memoria. O come le borgate di pasoliniana memoria, da cui non si usciva, se non con la morte. O come i sogni che diventano incubi e che in-formano la realtà di felliniana memoria.
Sì, perché in Dogman, Garrone propone un processo alla realtà di Marcello tutta vista attraverso la lente del cinema. Il quartiere che Garrone costruisce, con quel parco giochi abbandonato e i tavolini del bar fuori ad accogliere comitive di persone, mi hanno ricordato, molto velocemente, gli scenari di paese di Fellini in Amarcord, solo che in negativo: l’onirismo circense di fellini diventa un incubo fatto di maschere e uomini abbrutiti dalla vita; la sequenza finale, con quella sorta di omicidio/sogno in cui Marcello urla ma nessuno lo sente è un chiaro rimando alla sequenza onirica di Accattone di Pasolini: solo che se l’Accattone di PPP trovava la libertà nella morte (“Mo’ sì che sto bene”), il Marcello di Garrone rimane letteralmente con il fiato sospeso e così anche il finale. Non c’è possibilità di salvezza o riscatto, in un luogo come quel quartiere (così costruito ma così vero, perché di periferie simili in Italia quante ce ne sono!): semmai, le uniche possibilità che ha Marcello sono la vendetta e il dimostrare agli altri ciò di cui è capace, il suo essere all’altezza, l’essere forte o coerente con se stesso, soprattutto dopo tutti i soprusi e le ingiustizie che ha dovuto subire nella sua vita. Marcello non è mai un carnefice, è sempre vittima dell’esistenza e degli accadimenti di una realtà priva di salvezza. È un innocente, è un puro, ma è destinato ad andare ancora più giù di dove già è. E a renderlo ancora più puro e innocente è questa sua voglia di riscatto in un mondo che non prevede uscita.
Ma ecco che, invece, la realtà oltre il cinema ha dimostrato che dallo scoglio ci si può staccare, eccome: perché il vero Marcello se ne è uscito dalle palazzine e ha intrapreso una vita tutta sua al servizio dell’arte e del cinema. E questo, paradossalmente, ce lo dicono proprio il cinema e proprio Dogman: l’arte ti salva sempre.
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