Lo sguardo giusto
È mattina presto. La casa è ancora buia, ma le luci iniziano a filtrare dalle righe delle serrande. Non accendo l’interruttore: decido di fare colazione così, con la sola atmosfera del sole e del pulviscolo mattutino. Di là ancora tutti dormono. Respiro a fondo. Bevo tanta acqua. Preparo il caffè nella moka di mia nonna. Abbondante zucchero, stamattina sì. E poi, altrettanto abbondante colazione. Yogurt, cereali, frutta, una fetta del mio panettone. Sì, è agosto, ma ho iniziato a produrre panettoni, perché al panettone di dicembre occorre arrivare allenati e perché poi è un dolce troppo buono e troppo complicato da fare per essere confinato a soli quindici giorni di festa.
Il momento è liminare. Mi trovo esattamente tra me e il mondo, in quel punto di incontro che acuisce i sensi e che ti permette di vedere tutto meglio, a fuoco: né sei perso nei labirinti della tua testa, né sei gettato nel ritmo del mondo, che ti spersonalizza sempre un po’.
Mi rendo conto che sono pochi i momenti di questo tipo che ho e che abbiamo a disposizione, ma servono. Perché sono quei momenti in cui facciamo il punto della situazione, ma in cui, al tempo stesso, ci poniamo al di sopra di ogni cosa: più che il pensiero che abbiamo per la giornata, conta l’angolazione del raggio di sole e la sfumatura del suo timbro. Conta di più il rumore che fa il frigorifero, la mollica di pane sulla tovaglia, la pendenza di un fiore, la piega sulla federa del cuscino.
Anni fa scrissi la mia tesi di laurea, un lavoro abnorme, in cui spesso ho rischiato di impigliarmi. Avevo scelto quattro film e li avevo disposti non in ordine cronologico, ma in un altro ordine, tutto concettuale: ero partita dal livello in cui i protagonisti erano sin troppo prigionieri del mondo e dell’altro, tanto da vivere la propria vita e la propria identità solo in relazione all’altro, in modo patologico, ed ero approdata, attraverso un processo di liberazione, a quei film in cui i protagonisti avevano liberato il loro sguardo, lo avevano posto al di sopra di ogni cosa, diventando essi stessi sguardo-che-crea-il-mondo. Il primo film che ho presentato e analizzato era Old Boy, una vera e propria prigione fisica e mentale: due personaggi (ma anche più, se pensiamo all’intera trilogia) che si fronteggiano, specchiandosi l’uno nell’altro, in un continuo rimando vittima-carnefice-vittima-carnefice senza possibilità di uscita. Il mondo era tutto costruito su questo binomio, le identità pure, senza poter uscire dal proprio stato. Il secondo film affrontato era Mullholland Drive. Altri due personaggi, stavolta femminili, si affrontano su un altro piano, quello onirico. E se qui la prigione fisica e mentale permaneva, si aveva però la voglia, da parte della protagonista, di creare qualcosa di nuovo, che rifuggisse dalla realtà; non una liberazione completa, per la mia tesi, ma un primo passo in avanti: l’uomo in sé ha infinite risorse creative.
Sono così approdata ai due film finali del mio percorso verso la cima.
Prima ho affrontato Elegia della Traversata di Sokurov, con un piccolo riferimento ad Arca Russa. Elegia della Traversata è il regista in un incredibile viaggio tra associazioni di idee e sogni, immaginazioni e immagini reali che diventano poesia e riflessione: Sokurov qui è sia un Efesto che plasma il fuoco e i materiali a suo piacimento, sia un Prometeo che quel fuoco lo ruba e lo porta agli uomini, sia gli uomini che sbalorditi vedono il fuoco per la prima volta. Tre diversi approcci in uno. L’uomo creativo diventa qualcosa di più, diventa artista e demiurgo, artigiano del mondo: guardare con attenzione è di per sé creare. Capire. Avere il mondo nelle mani. Sorreggere quel mondo che senza lo sguardo di uno spettatore e di uno spettatore/artista non esisterebbe. Il film di Sokurov termina nei depositi dell’Ermitage. Qui, di nascosto, Sokurov declama una poesia rivolgendosi alla Torre di Babele. Dal quadro sorgono voci, confuse e confusionarie, a cui il regista/artista/demiurgo/occhio impone il silenzio: perché chi sa vedere sa astrarsi dalla confusione del mondo e sa andare oltre, sopra.
È da qui, da questo silenzio sulla Torre di Babele, che mi sono collegata all’ultimo film, Ferro-3 di Kim Ki-duk. Lo sconosciuto protagonista senza nome si aggira nel mondo, nelle case, si appropria della vita altrui, la vive, la scompone, la ricompone, la osserva. Fino ad essere incarcerato. Fino a che in quella minuscola cella, non diventa occhio invisibile che vede tutto sopra ogni cosa. Imponendo ogni tanto tra sé e il mondo uno schermo, perché lo schermo aiuta a non dissolversi nel mondo. Perché il vero artista/demiurgo/occhio sa che il solo e unico schermo è il suo stesso sguardo. E che può stare in un angolo in alta montagna o infognato nel caos di una metropoli, ma sa sempre mantenere quello sguardo vivo che è al contempo lo sguardo che guarda, che crea, che capisce il mondo.
Per questo motivo ho scelto come approccio finale quello di Kim Ki-duk e non quello di Sokurov: Sokurov rischia di disperdersi nel mondo, in una sorta di trip lisergico che disancora l'uomo dal resto delle cose. Kim Ki-duk, invece, sa calare l'astrarsi nell'empirico svolgersi quotidiano della vita, riportando il grande nel piccolo, l'universale nel particolare.
Un anno e più di visioni e filosofeggiamenti e citazioni per dire quello che sto vivendo ora: una bolla tra me e il mondo, nel buio semi-illuminato dal sole delle prime ore del mattino, il silenzio, il mondo che inizia a muoversi e la capacità di vedere tutto questo accorgendosene e senza esserne attraversati.
Occorrerebbe poter vivere tutte le giornate così. Impegnativo, sì, ma sarebbe utilissimo: perché nel resto della giornata ci si lascia attraversare dalle cose, da quello che accade, dalle paure di ciò che accadrà, dai problemi più o meno grandi, senza pensare al qui e ora. E che il qui e ora è acuire i sensi e dare a ogni gesto, anche quello di lavare una tazzina di caffè sotto l’acqua fredda, un’importanza epocale. Sentire le cose sulla pelle e nel respiro per sentirle dentro, davvero, senza mai dimenticarle.
Purtroppo so benissimo che non sono il protagonista di Ferro-3. Che tra poco la serranda verrà alzata, entrerà in casa il sole forte e con esso si darà via alla giornata con tutte le sue dinamiche che spesso ti fanno dimenticare chi sei e cosa vuoi. Pensiamo ai cambiamenti, ne abbiamo paura, non riusciamo a trattenerci e magari ci viene un bell’attacco d’ansia. È difficile guardarsi indietro a ciò che si è già affrontato per capire che si è in grado di affrontarlo. E lo dico proprio oggi, 30 agosto, che da sempre è una giornata limite tra la fine dell’estate e l’inizio di un settembre sempre malinconico e sempre troppo di passaggio.
Ecco, godiamocelo, il passaggio, come la traversata di Sokurov, ma con il piglio di Kim Ki-duk: un essere sempre attraverso le cose, senza subirle, per sentirle nel profondo. Perché, penso, la vita si gode così, non con esperienze al limite, ma accendendo i sensi e vivendo un’esperienza sinestetica anche di fronte a una tazza di caffè fumante, alla penombra del mattino, al silenzio carico di casa propria.
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