La malinconia della salsa di pomodoro



Svoltato il quindici agosto, mi è sempre calata la malinconia. 
L’estate praticamente sta finendo, anche se da queste parti - volendo - a mare si sta bene fino ad ottobre. Le spiagge iniziano piano piano a svuotarsi, forse perché il meteo non è più incandescente o forse perché chi va al mare tutti i giorni dal primo giugno inizia a stufarsi. Si rompono i tempi, si dice dalle mie parti, che significa che qualcosa nel vento, nella temperatura dell’acqua, nel modo in cui il sole piega le ombre, non va più: è come se fosse più autunno che estate, ecco. Le giornate iniziano ad accorciarsi: e se prima si stava a mare fino a cena, ora non c’è più motivo di rimanere fino a tardi, a meno che non si sia particolarmente poetici e si decida di vivere la solitudine del tramonto sulla spiaggia deserta.
Tuttavia, tutti quelli appena descritti, sono sempre stati i presupposti per iniziare un’altra avventura - faticosa e tutta estiva - ma estremamente gratificante: rinunciare al mare per allestire in giardino i lavori volti alla produzione della salsa di pomodoro da conservare in cantina, sugli scaffali di ferro, durante l’inverno. E poi aprire le bottiglie, col freddo, quelle bottiglie marroni di vetro, simili a quelle della birra, ma un  po’ più grandi, e sentire tutto il profumo dell’estate.

Ricordo che si iniziava con la sterilizzazione delle bottiglie e il controllo dei tappi; si procedeva con l’analisi accuratissima di infinite cassette di legno piene di san marzano (ma a me piace di più scrivere sammarzano): si prendevano i pomodori uno per uno, li si spolverava con un canovaccio per togliere la terra, quelli più maturi li si utilizzava per la salsa, quelli meno maturi li si salvava per fare un pranzo veloce a base di pomodoro tra un imbottigliamento e l’altro. E poi era tutto un bollire, uno strizzare in canovacci, un riempire bottiglie... e infine si passava alla sterilizzazione finale. Mio padre allestiva in giardino un enorme bidone (e per enorme intendo un cilindro alto quanto un uomo adulto e largo il doppio), su un fornello da campeggio. Dentro, le bottiglie, separate da canovacci. Si accendeva e si facevano sterilizzare, in modo da garantire la lunga conservazione della salsa. 

Ricordo che erano giornate speciali, perché stavamo tutti assieme praticamente per ventiquattro ore, per almeno una settimana. I miei nonni arrivavano a casa di buon mattino - forse alle sei? - e iniziavano a lavorare, tanto che quando mi alzavo io, alle otto circa, forse anche prima, la macchina dei lavori era già ben avviata. Era una continua sgridata di mia madre, perché non mi alzavo presto abbastanza o non aiutavo abbastanza. Mi mettevano a fare la parte forse più noiosa, quella di lavare i pomodori e poi di spaccarli e controllare come erano dentro, ma non sapevano che a me di tutto quel trambusto piaceva un’altra cosa. C’erano dei momenti, infatti, in cui avevo bisogno di allontanarmi dal giardino, di entrare in casa, oltrepassare la cucina, salire al piano di sopra ed entrare nella mia cameretta; da là sentivo il vociare dei miei genitori e dei miei nonni dall’altro lato del giardino, sentivo i rumori tintinnanti delle bottiglie, tutto in lontananza. Erano voci ovattate, che creavano una sorta di cuscinetto tra me e il mondo: e in breve mi sentivo protetta. Sentivo il silenzio del piano delle camere di casa mia, dove ero solo io, a godermi un po’ l’attimo di quel caos prima che svanisse, mentre sotto, fuori, sentivo quello stesso attimo che scorreva con la vita e che in qualche modo fuggiva via. 
Contemporaneamente catturavo gli istanti della vita e provavo malinconia perché, in ogni caso, se ne stavano andando. Sarebbero rimaste solo le bottiglie in cantina, una accanto all’altra, a ricordarmi di quei giorni di fine estate, a mo’ di fotografia, e poi il profumo della salsa non appena avessi stappato uno di quei tappi. 
Poi, a poco a poco, il lavoro della salsa di pomodoro non si è più fatto. I nonni troppo anziani, i pomodori del contadino forse poco soddisfacenti, un lavoro troppo lungo... chissà. Ma io ricordo ancora perfettamente tutto quello che facevamo, gli odori e soprattutto quella sensazione di lontananza e prossimità agli eventi, la voglia di viverli appieno, nel profondo, ma allo stesso tempo di vederli con distacco, in modo oggettivo, solo per ricordarli meglio.
Perché, come ho già detto precedentemente, i ricordi vanno allenati: qualunque sia il risultato di ciò, magari un colore, una frase, un vestito leggermente distorto rispetto alla realtà, è meglio che non ricordare affatto. Alla fine si devono ricordare la sensazione e il concetto di quello stesso evento.
Potrei usare delle parole precise per quei giorni di salsa, come l’acido del pomodoro che ti entrava nel naso e non usciva più e per giorni e giorni non volevi altro che verdure di ogni specie - purché non fossero pomodori; ricordo la sensazione appagante di quello strano aggeggio che i miei avevano per passare i pomodori ed eliminare i semi, infilavamo i pomodori giù per un imbuto bianco, faceva un gran rumore, ma vedere come i pomodori venivano spinti giù era sì... appagante. Ricordo i canovacci a quadretti bianchi e marroni o bianchi e verdi, un residuo di un corredo anni ottanta che in barba a tutte le regole del bon ton per me facevano subito casa e famiglia. Ricordo il silenzio, poi, quando veniva chiusa l’ultima bottiglia, asciugata dall’acqua di sterilizzazione, infilata in cantina, e le altre erano una conta, da dividere tra tutto il parentado. Ricordo il bollire di quel bidone, che quasi mi faceva paura, ma che segnava inevitabilmente il distendersi della macchina operativa. Ricordo le fronde del pitosforo e le rose sfondo dei luoghi della salsa, mentre il nespolo e il pesco erano dall’altro lato del giardino e lì, tra le loro foglie, mi perdevo per sentire meglio quello che avveniva altrove. Ricordo la canicola del dopo pranzo, quando tutti decidevano di riposarsi un po’, anche solo cinque minuti, e quei cinque minuti di pennichella estiva erano una bolla protettiva che avrei voluto durasse anni. 

Ma dura da anni, perché sono tutti nella mia testa, ancora, vivi: e forse quando diventi adulto lo scopo è un po’ quello di ricreare per la tua famiglia e i tuoi figli quella stessa sensazione di bolla protettiva, da far durare per sempre. 

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