Natale #3 - RITORNO - Atto primo
Natale #1 - ATTESA - Atto primo
Natale #1 - ATTESA - Atto secondo e finale
Natale #2 - TRADIMENTO - Atto unico
Finché dico ciao tutti mi capiscono.
Natale #1 - ATTESA - Atto secondo e finale
Natale #2 - TRADIMENTO - Atto unico
Finché dico ciao tutti mi capiscono.
Agito la mano destra da
sinistra a destra, prima piano, poi sempre più veloce. Il movimento
è molto veloce se sono felice di salutare chi mi sta di fronte.
Lento, incerto, se mi sento imbarazzata o se non ho alcuna voglia di
vedere nessuno. E i significati sono abbastanza eloquenti.
Il problema è quando
devo esprimere concetti più complessi.
Il problema non sono io.
Il problema sono gli
altri, anche se da sempre hanno voluto far credere che fossi io.
Il problema è che io
comunico così, ma il vero e più profondo problema è che gli altri
non sono abituati a guardare. Nessuno si ascolta come dovrebbe,
figuriamoci se si tratta di parlare per gesti.
Gesti. Che poi è una
lingua vera e propria. C'è gente che impara sette lingue con una
facilità disarmante pur di fuggire dal proprio paese e far carriera
altrove e nessuno è disposto a imparare le parti elementari della
mia lingua, nemmeno chi mi è più caro.
Sarà che mi hanno sempre
vista come un errore. Una cosa venuta un po' male, come quando il
ciambellone non lievita come dovrebbe o i biscotti si bruciano.
Raschi la cortina bruciacchiata, mangi la metà dei biscotti –
sono anche buoni, ma il retrogusto amaro rimane sempre. Ecco, per i
miei sono un po' come una ciambella bruciacchiata. Ciao lo sanno dire
benissimo. Il resto, bah. Mi hanno sempre fatta sentire diversa.
Il problema è che non
sono io diversa.
Il problema è che loro
sono genitori diversamente abili.
Il problema è che mi
hanno sempre fatta arrabbiare da matti. E poiché litigare o urlare
con la lingua dei segni è un po' difficile, mi hanno abituata a
esprimere l'arrabbiatura con calci, pugni e lanci di oggetti. Apro la
bocca, la agito senza far uscire alcun suono, strizzo gli occhi fino
ad arrossarli e inizio. Lanci di sedie. Sono i miei preferiti. Tirare
via la tovaglia e mandare in frantumi stoviglie e cena. Stupendo. E
vediamo se mi capite.
Una volta l'ho fatto
anche a Natale. Avevo solo otto anni ed era la prima volta. Ho dovuto
imparare a leggere il labiale e a capirlo pure se non ho le labbra
che mi si muovono di fronte agli occhi. E, anche se parlano di corsa,
io capisco tutto. Mi basta guardare l'espressione del viso,
l'arricciarsi del naso, di una ruga, il movimento degli zigomi e
delle orecchie.
Era un Natale di quelli
passati in tre e un regalo incartato male con la carta pasquale sotto
l'albero. L'albero senza luci. Mamma e papà tentano con disinvoltura
di mettere le mani davanti alla bocca, mentre parlano. Ma li capisco.
Altroché. In meno di due secondi a terra ci sono i piatti interrotti
e la zuppa di pesce che si infila nelle righe tra le mattonelle.
Una, due, tre volte. Col
mio comportamento li costringo – almeno – a passare i Natali con
altre persone. Mamma e papà speravano che non facessi più uno dei
miei soliti gesti eclatanti. E, invece, al solito pararsi la bocca
con le mani di qualche parente e al primo labiale maleducato del
cuginetto di turno che mi urla Sei stupida!?, prendo la tovaglia e
tiro via. Il vino vola nella scollatura della zia prima che il vetro
si infranga a terra e pezzi ovunque nella roba da mangiare e io che
vorrei sentire solo il rumore dei frantumi e il silenzio
scandalizzato di tutti.
E io che vorrei.
E io che vorrei
cancellare tutti i Natali.
E io che vorrei tornare
ad una sola volta della mia vita. Quella in cui mamma e papà erano
ancora mamma e papà. E avevano appena scoperto che non sentivo né
parlavo. Che ero una bimba a posto, solo che comunicavo in modo
diverso.
Io che vorrei tornare a
quella volta in cui mamma e papà, per sentirsi come me, mi portarono
in una baita in mezzo al bosco, a trascorrere una settimana. Niente
traffico, niente vicini, niente campanelli, niente telefoni, niente
sveglie. Per evitare il rumore del vento o il cric crac dei legnetti
nel bosco, i miei genitori si infilarono nelle orecchie dei tappi
giganteschi. Ricordo che passammo una giornata intera sdraiati su un
grande asciugamano a guardare il sole tra gli alberi. Io in mezzo a
loro, tra le mie braccia il pupazzo con cui dormivo, l'unico che
capiva i miei gesti. Mamma mi accarezzava i capelli e papà mi
stringeva e io ero così piccola che sbattevo i piedini all'altezza
dei suoi fianchi – papà mi baciava la tempia, intercettando di
tanto in tanto la mano di mamma.
È evidente che tutto
quel silenzio e tutto quel non parlare, tutto quel doversi guardare
di continuo, con attenzione, senza posa, li ha logorati. Facciamo
così. Tu leggi il labiale e ci rispondi scrivendo. Ho dovuto
imparare la mia lingua e la loro lingua e a esercitare una grafia
chiara e leggibile. E a dover scrivere bene per far intuire le
intonazioni. Se ci sono tanti modi per far ciao con la mano,
figuriamoci quante intonazioni possono esistere per far capire la
reale natura delle mie frasi. Per questo spesso la verità delle mie
parole si è persa nel silenzio della carta e mia madre e mio padre
sono diventati due sconosciuti.
Così, la bimba col
pupazzetto è diventata una donna col pupazzetto che se ne va a
lavorare coi ragazzi come lei, sordi e muti e soli come lei, che
tentano di essere uguali agli altri, ma il problema è.
Il problema è che gli
altri non sono uguali a noi.
Ci chiudiamo nel nostro
bell'istituto, chi passa lo guarda e prova pietà. Se è dicembre e
qualcuno passa, guarda l'istituto con una pietà triplicata, Povera
gente tutta sola a Natale – pensa.
I miei ultimi – non so
quanti – Natali sono stati i Natali delle apparecchiate
chilometriche, dei pentoloni in acciaio, dei sughi che non hanno
sapore perché vengono preparati in quantità industriale e dosare il
sale è un problema. Comprare il pesce è un problema, perché costa.
Si comprano tanto pane e tanta pasta, si brusca tanto di quel pane e
si lessa tanta di quella pasta che poi l'ultima fetta che si toglie
dal fuoco è nero carbone e, prima che si scoli tutta, la pasta è
diventata colla. Un albero con addobbi rimediati qua e là, le luci
che si fulminano ogni due giorni. Un canto stonato alla mezzanotte e
lo scambio dei regali. Ti regalo un pettine perché hai i capelli
lunghi, mi dice un ragazzino di dodici anni. Agita le mani
nervosamente, è diventato sordo da poco, dopo un incidente, e la
storia del piccolo Timmy di Dickens è felicità, in confronto.
Va bene. Non vi annoio
oltre. Non sono così sciocca da crogiolarmi in questa situazione di
assurda solitudine. Finché non agito le mani o fisso le persone per
capirne il labiale, la gente mi prende pure per normale. Vivo da sola
in un appartamento di due stanze. Mi piace comprare vestiti alla moda
e quando sono giù di tono spendo tutto in stivali. Non torno a casa
se non ho comprato almeno una barretta di cioccolata e un prodotto
per capelli. La sera, se non sto con i ragazzi, cucino qualcosa di
sopraffino, infilo il pigiama e guardo la tv mettendo i sottotitoli
dal televideo. Sono normale, insomma. Finché non decido che è ora
di smetterla di essere normale. Come quando all'improvviso tiro via
la tovaglia con stoviglie e cena annesse.
La cosa non normale di
questo dicembre è che non passerò il Natale con i ragazzi. Ho detto
loro che il pomeriggio della vigilia ho una cosa importante da fare.
La mia maestra d'asilo, l'unica che abbia imparato i rudimenti della
mia lingua, va in pensione. Festeggia con alunni vecchi e nuovi.
Passerò a scuola la mia vigilia, mangerò panettone, berrò
spumante, tutti i miei compagnetti mi ricorderanno subito, perché
una sorda non se la scorda nessuno, abbraccerò la maestra, la
abbraccerò tanto.
Ma spero di incontrare
chi dico io. Di salutarlo calorosamente. Di dirgli Sei l'unico che mi
ha lasciato un bel ricordo. Poi me ne tornerò a casa e farò una
cena di natale in solitudine, ma cucinata come si deve.
Il problema però è.
Il problema però è che
lui non mi riconosce. Mi scambia per una sua ex fidanzatina del
liceo. E non ho più spazio sul taccuino per dirgli che lui è quello
del disegno. Quello del disegno col campo di grano e i passerotti
rossi.
Continua...
Arrivederci a lunedì per il gran finale
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Edouard Manet, La famiglia Monet in giardino, 1874
Soundtrack: Emma Louise, Jungle
Sia, Chandelier
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