Natale #2 - TRADIMENTO - Atto unico
Mancano quattro o cinque
ore alla cena. I miei genitori mi aspettano, ma ho già detto loro di
non aspettarmi. Sono riuscito a prendere le ferie per l'intero
periodo natalizio e persino un permesso per oggi, per la vigilia,
nonostante abbia iniziato a lavorare da appena due mesi. Oggi ho
lavorato solo di mattina. Niente pomeriggio. Oggi pomeriggio ho un
impegno. Sono venuto qui, ad una specie di cerimonia, una riunione di
ex compagnetti di scuola. Allento la cravatta, sprofondo sulla sedia,
la maestra parla, non l'ascolto, ho altri pensieri.
Quest'anno non voglio
tornare a casa per Natale.
Mio padre dice che il
Natale è una tradizione, ma che ogni anno bisogna inserire un
piccolo cambiamento, fino a inventarne una nuova – di tradizione.
Il punto è che per me non è mai cambiato nulla. Quest'anno, lo so,
sarà tutto un allora come ti trovi al lavoro? Ti piace, ti sei
ambientato? Lo scorso Natale era tutto un come va la tesi? Quando la
discuti? Due anni fa era tutto un quanti esami ti mancano? E così
pure tre e quattro e cinque anni fa. Sei anni fa tutto un ti trovi
bene all'università? Ti manca la scuola? E così via, indietro,
unico nipote tra due genitori e quattro nonni, i Natali sempre
festeggiati in sette, ogni tanto qualche lontano parente, cugino
dello zio del padre dei miei nonni viene a fare i più falsi e vuoti
auguri di Natale e a tentare di riempire il vuoto augurio con una
partita a carte. E poi anche lo zio del cugino del fratello di non so
chi era tutto un ma come sei cresciuto! Che fai? Che studi? Ah,
ingegneria? Ma non era lettere? No. Non è mai stato lettere. Odio le
lettere, odio tutto ciò che esce da binari rigidamente
controllabili. Amo i numeri e le formule. E, allora, da quando ho
costruito la prima macchinetta lego a circa cinque anni, una
macchinetta lego che mio padre mi regalò poco prima della cena della
vigilia, per l'intera famiglia, esterrefatta, fu tutto un ma che
bravo, ma che genio, evviva l'ometto di casa.
Quindi, basta. Ho un
lavoro da due mesi, uno stipendio, sono autonomo, ho persino
affittato una stanza vicino al posto di lavoro, tra gli strepiti di
mia madre e la muta disperazione di mio padre.
Allento ancora la cravatta fino a scioglierla, la
tolgo, la infilo nella tasca della giacca. Guardo dietro di me. Tre o
quattro amici di scuola che ho visto per l'ultima volta circa venti
anni fa e che non conservano neppure l'impronta di quello che erano
da bambini. Accanto a me una ragazza silenziosa, capelli lunghissimi,
neri, seduta sul bordo della sedia, dritta con la schiena, le mani
unite sulle ginocchia e le dita che si sfregano. Tiene la bocca
socchiusa e gli occhi sbarrati, come se le parole della maestra
fossero verità divina. Non capisco il motivo di tanta attenzione ed
è questa l'unica cosa che mi attrae in tutta l'aula magna della
scuola. Lei – sì – ha un'impronta familiare, ma non riesco
ancora a fissarla nel nome e nel volto di una bambina. Ha un vestito
che le fascia perfettamente le forme e che le arriva fino a metà
coscia. Gli stivali. Uno spolverino fradicio e un ombrello
gocciolante. Si accorge che la fisso. Si volta verso di me e con la
stessa bocca socchiusa e gli stessi occhi sbarrati sorride e fa ciao
con la mano. Un ciao-con-la-mano esagerato, come se fossimo ai due
estremi di una lunga strada e non a pochi centimetri di distanza.
Come se volesse salutarmi più forte. O gridare il suo saluto. Tanto
che rispondo con un ciao incerto della mano e non apro bocca.
Lei socchiude gli occhi e sorride appena, tra il timido, il
riconoscente e un'espressione che dice Sapevo che ti saresti
ricordato di me. Perché lei, è chiaro, ricorda benissimo chi sono.
Nome cognome posto a cui ero seduto in classe e disegno annuale
appeso al muro. Dopo due istanti, forse anche meno, capisce che io di
lei, in testa, ho solo un'impronta. Un'impronta anche un po' confusa
dal fatto che è la vigilia di natale, tra quattro ore dovrei stare a
sorbirmi la solita manfrina familiare e non ho alcuna voglia di
vedere nessuno. Mi afferra il polso, me lo scuote e proprio non
capisco che scena sia, questa. Ho voglia di scappare di casa, dal
lavoro, da questa assurda cerimonia scolastica prenatalizia e capire
in che razza di buco dimensionale sia finito. O nella vita di chi
altro sia finito. Perché lei continua a guardarmi con la sua faccia
esagerata, come se dovesse dirmi tutto a chilometri di distanza e,
pure se tenta di urlarmi le sue frasi, io non la capisco. Poi ho
un'impressione. Forse è una qualche mia fidanzatina del liceo. Una
di quelle con cui ho frequentato l'asilo e che poi ho rivisto mutata
in fanciulla alle superiori. Glielo dico. Impressione sbagliata. Lei
fa una faccia delusa, di una delusione esagerata. Quasi paradossale.
È talmente delusa che sparo la prima frase che mi viene in mente.
Una frase assurda, istintiva, malsana e benefica allo stesso tempo,
perché sulle cose non programmate non sai mai come andrà a finire.
La sparo, la frase.
Che fai stasera, per la
vigilia?
Forse è la mia uscita di
sicurezza. Il necessario tradimento della tradizione.
Tira fuori un taccuino
dalla borsa. Piccolo, tutto scarabocchiato. Non trova una pagina
libera e allora inizia a scrivere tra un arabesco disegnato
nervosamente, di quelli che si disegnano quando ti annoi, e una frase
in bella grafia “domani dalle cinque alle sei”.
Scrive, sotto i miei
occhi: sono sola.
Mi guarda, stavolta,
senza la solita espressione gridata. E io, con la solita frase non
programmata: ti va di passare la vigilia a casa mia?
Mi guarda, ancora. Con
due occhi più dolci del dovuto, di quelli da cui ti fai rapire una
volta per tutte. Neri e profondi, silenziosi e impavidi, pieni di
parole e di storie mute.
Attendo una sua risposta.
Che sia un arabesco, una frase scritta o un'altra delle sue
espressioni esagerate. L'albero di carta a grandezza naturale,
ritagliato e colorato dai bimbi della nuova generazione, riflette le
lucine sbilenche attaccate alla bell'e meglio dai bidelli. Eppure mi
arriva al naso il profumo della mamma che mi mette a letto e mi dice
Dormi, altrimenti babbo natale non arriva.
Fine...
Arrivederci a venerdì per la prossima storia
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustave Caillebotte, Rising Road, 1881
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