Painting of the Week: La sala delle agitate nell'ospizio di San Bonifacio (Telemaco Signorini, 1865)
La storia della pittura
per macchie, forse, ha ancora qualche risvolto irrisolto. C'è chi ne
attribuisce la paternità agli Impressionisti, chi ai Macchiaioli. Si
tratta sempre di andare a guardare con la lente d'ingrandimento date
e attribuzioni del nome, prime esposizioni e prime critiche. Che sia
stato il 1862 (o il 1855) per i Macchiaioli e il 1863 per gli Impressionisti
(quando espose anche Manet con Le Déjeuner sur l'herbe) o il 1874, in fondo,
poco importa. Si trattava sempre di macchie e di impressioni; si
trattava sempre di artisti che volevano sperimentare la luce sulla
tela affinché l'arte non fosse solo riproduzione fotografica, ma
ricerca - ottica, visiva, immaginifica, realistica...
Telemaco Signorini è uno
di quelli che ha ricercato, tutta la vita. Non siamo di fronte
all'artista maledetto, a quello scomparso precocemente, a quello
folle che fa della vita un'opera d'arte. Se proprio dobbiamo
confrontare gli italiani con i francesi, possiamo dire che il nostro
Signorini ebbe la caparbietà della quotidiana ricerca pittorica alla Cézanne, un certo gusto per gli interni alla Degas e la voglia di
raccontare la realtà alla Daumier (anche se quest'ultimo non fu
impressionista).
Signorini si impegnò
nell'arte per una vita intera. Ad un certo punto, in quel di Firenze,
si unisce a Fattori e a Lega e decide di dipingere per macchie,
restituendo i colori solo dallo scaturire della luce, come avviene
otticamente. Allo stesso tempo, però, Signorini viaggia. E non fa
quei viaggi da artista colto e chic. Tutt'altro.
Signorini entra nel
carcere di Portoferraio e ritrae il momento dell'appello dei
detenuti, uno dei quali è Carmine Crocco, un famoso brigante che aveva messo sotto
scacco prima i Borboni e poi la neonata Italia. Signorini dipinge l'appello
riducendo tutto a macchie sciolte, quasi il tempo sospeso del carcere
avesse proprio questo effetto: quello di sciogliere le persone, di
portarle alla consunzione sia fisica che morale.
Ma qui vogliamo parlare
di quando Telemaco decide di entrare in un luogo maledetto e forse
proibito, di quelli a cui la gente non vuol pensare e, se vi passa
davanti, gira lo sguardo con falso pudore.
Telemaco entra nel reparto psichiatrico di San Bonifacio. E ne trae uno dei dipinti macchiaioli
più incisivi - forse uno dei più incisivi dell'arte italiana degli
ultimi due secoli. Almeno per chi scrive.
È il 1865, Telemaco ha
trent'anni e una gran voglia di conoscere, raccontare e sperimentare.
Così, entra nella sala
delle agitate. Tutte donne. Ognuna con un disturbo diverso. Ognuna
lasciata a se stessa. Figuriamoci: nessuno sapeva come curare certe
malattie, nel 1865. Forse, ognuna di quelle donne veniva considerata
immorale, posseduta, una persona degna solo di nascondersi dagli
sguardi del mondo. Donne lontane col loro dolore, i loro spasmi, i
loro pericoli. Tutti mentali. Mentali ma anche fisici, perché le
donne, come sottolinea il titolo, si agitano, ognuna a modo proprio,
contorcendo e distorcendo il loro corpo. È quasi difficile rendere
onore a tutte, dare a tutte quell'eternità del segno pittorico.
E, allora, cosa meglio
della macchia veloce - eppure ben distinta - per raccontarci di un
luogo in cui i movimenti sono nervosi e violenti, in cui si urla, in
cui si piange, in cui si va da una parte all'altra della stanza senza
cognizione di causa - magari sbattendo i piedi o facendo gesti
impropri?
L'agitazione è così
tanta che Telemaco sente di dover mettere una pausa. Lo fa. In fondo
al dipinto realizza l'angolo della stanza, la porta e una finestra.
La loro immobilità cozza con il disordine delle donne. Ma
quell'immobilità è necessaria. Sia per far respirare la mente, sia
per tentare di dare ordine e rigore a qualcosa che non ce l'ha. Due
buchi, quella porta e quella finestra, oscuri: non hanno il fondo,
non sembrano uscite. E, allora, Telemaco commenta: questo disordine,
questa agitazione non hanno uscita. Nella malattia mentale, così
trattata, non c'è luce. Non esiste soluzione.
Quella porta e quella
finestra, nella loro lunghezza esagerata, nella loro oscurità, nella
loro fissità, appaiono ancora più inquietanti della malattia delle
pazienti. La porta - aperta ma chiusa - è il limite tra fuori e
dentro, tra noi e loro. Un limite dato proprio dalle mura bianche di
un ospizio, di quello che dovrebbe essere un luogo di cura, ma che si
rivela essere solo un luogo di segregazione.
La donna accanto alla
porta, rannicchiata sopra una panca con un lenzuolo sulla testa, non
ha volto. È un buco nero, spersonalizzata, disumana. Sola, senza
speranza.
E Telemaco, trent'anni,
uno spirito cronachistico ma fortemente lirico, rimane in disparte,
nel punto vuoto della sala. Lì sta lui, ad osservare da
un'angolazione laterale ma privilegiata. Sgomento, ma costretto ad essere
obiettivo. A restituirci le macchie, la verità ottica di quel
giorno. Una verità che, però, perfora l'occhio e scava nella mente.
Impossibile rimanere indifferenti.
Commenti
Spesso certi nomi - mi riferisco in particolare a Signorini - rimangono un po' in disparte, chissà perché. Eppure hanno dato un grande contributo non solo all'Arte ma alla Società in generale.
Grazie per il tuo commento e per le belle parole che spendi per me.