14 maggio 1943
Lo immagino – il
silenzio ovattato della sera di settant'anni fa.
Lo immagino – il vuoto
stretto e desolante di una città ridotta a brandelli.
Immagino due bambini,
undici anni lui, sette lei, vedere all'improvviso il mondo
rovesciarsi.
Sono bastati cinque
minuti perché il cielo si aprisse e vomitasse fuoco.
Sono le tre del
pomeriggio di una primavera che già ha il sapore dell'estate.
Perché, a metà maggio, nella mia città, è già estate. Il mare
brilla sotto il sole, la calura invade le case e le persiane si
accostano per guadagnare ombra. Alle tre del pomeriggio del
quattordici maggio millenovecentoquarantatré, la guerra è un'eco
lontana.
È un venerdì
caldo e assolato. Di quelli in cui la gente riposa e lavora stancamente. Al
cinema, forse, danno i film western con Tom Mix. I bambini giocano a
rincorrersi per le strade e qualche mamma, dalla finestra, urla di
non fare chiasso.
Poi, più niente. Poi, il
silenzio del risucchio, prima del boato finale.
I vetri tremano.
Cos'è? Un terremoto? Ci
si affaccia alla finestra. Dal porto, si alzano le fiamme. È una
nave, una di quelle che porta soldati. Improvvisamente, la guerra non
è più lontana. La guerra arriva in casa, bussa alla porta. E non se
la prende solo con la flotta nazista ormeggiata. La guerra se la
prende con migliaia di persone intente a vivere la loro vita.
Le sirene dell'allarme
non suonano. Se avessero suonato, sarebbe servito a qualcosa? Non
possiamo saperlo, ma la gente non ha avuto modo di rifugiarsi. La
guerra ha bussato alla porta, ma è arrivata anche per le strade,
come un fiume in piena.
Sono bastati cinque
minuti. Cinque minuti per polverizzare qualsiasi cosa. Cinque minuti
per distruggere migliaia di anni di storia romana, saracena,
medievale, rinascimentale, seicentesca e settecentesca. Cinque minuti
per sgretolare i vezzi Liberty dei palazzi sul lungomare. Cinque
minuti per sbranare la rotonda in mezzo al mare, scenario suggestivo
delle serate della nobiltà dell'entroterra.
Cinque minuti per
annullare interi quartieri. Un tempo, c'erano cinque strade
parallele, denominate Prima, Seconda, Terza, Quarta, Quinta strada.
Oggi non ci sono più, non tutte. Alcune sono state spazzate via in quel giorno: specialmente la Seconda, luogo della memoria.
Cinque minuti, sì, quei
cinque minuti fondamentali: quelli che hanno cancellato intere
famiglie. Su una lapide, dietro la Cattedrale, oggi si leggono
centinaia di nomi con lo stesso cognome. Famiglie senza più futuro,
niente più famiglie.
Gli anziani della mia
città, quando ne parlano, con ritrosia, col dolore negli occhi, ti
dicono che è stato come un film. Solo che peggio. Solo che reale. E
deve essere stato tremendamente reale, quando, alla sera, i
sopravvissuti, sporchi e laceri, hanno iniziato a muoversi tra le
macerie.
Un silenzio apocalittico,
dopo.
Il cimitero storico,
adagiato sul mare, è sconvolto. Le vecchie tombe si sono aperte e
sono usciti fuori i morti. Alla sera, accanto ai vecchi morti,
vengono ammassati i nuovi, in attesa di un riconoscimento che durerà
giorni. È lì che i sopravvissuti andranno a cercare i cari
scomparsi. È lì che oggi sorgono tombe senza nome e tombe senza
corpi – solo una foto, un nome, una data imprecisa e la scritta
“disperso nel Mediterraneo”.
Alla sera, i luoghi
sventrati guardano increduli un mare ferroso e velenoso. Il Maschio
di Michelangelo si erge dall'acqua col suo assetto precario. La fontana del
Vanvitelli guarda il porto col suo mascherone attonito e senza
parole. La Rocca, anch'essa a ridosso del mare, viene privata
dell'alta torre con l'orologio, punto di riferimento per tutta la
città. La chiesa dei Martiri Giapponesi è un rudere. Eppure, cinque
o sei metri più in là, la grande statua di San Francesco è
intatta. Si alza solitaria dalle macerie, con le braccia allargate.
Guarda il cielo, forse pensa, forse chiede perché.
La mia città si svuota.
Rimangono il vento a sibilare e la risacca del mare sconvolto. Anche
i lamenti, in breve, si spengono. Chi può abbandona subito la
ridente città sulla costa.
La bambina di sette anni
aveva una casa bellissima, poco lontana dal centro. Era grande e
aveva un giardino con l'albero e l'altalena. Di sera, negli occhi
della bimba, c'è un buco: quel buco era la sua casa. Per alcuni
anni, quel buco si riempirà di acqua piovana e diventerà una
piscina.
Negli occhi del bambino
di unidici, che abitava in Seconda strada, quella che non esiste quasi più,
c'è un uomo senza testa che corre prima di stramazzare. C'è un cane
che scava tra le macerie alla ricerca del padrone. Negli occhi del
fratellino, c'è un uomo con la pancia aperta che tenta invano di
raggiungere un ospedale ingolfato. Di lì a pochi mesi, dopo altri
due bombardamenti di minore entità, i nazisti avrebbero occupato e
reso infernale la vita di quella ridente città sul mare.
Che ora rideva un po'
meno.
Che ora era vuota come il
vuoto cosmico.
Che ora era senza storia
e senza volto e senza nome.
Da qualche parte, in
Italia, un ragazzo di ventitré anni fa il soldato e cerca di
sopravvivere come può. Aveva iniziato il servizio militare proprio
nel Quaranta. Una volta ha detto: “Io lo so cos'è la guerra” e a
malapena raccontava di una bomba che gli era caduta a pochi metri di
distanza. Lui si era salvato e il bambino accanto a lui si era diviso
a metà. Distoglieva lo sguardo come se ce lo avesse ancora davanti
agli occhi, quel bambino. A malapena ti raccontava della volta che
era rocambolescamente fuggito dalla fila nazista e dalla
deportazione.
Il bambino di undici anni
a malapena racconta della volta che, sulla spiaggia, i nazisti hanno
fatto scavare le fosse... e della volta in cui si è dato alla
macchia col padre.
La bambina di sette anni a
malapena racconta della bella casa e delle dodici ore di viaggio a
piedi per raggiungere il primo paese vicino.
Un'altra ragazza, diciannove anni, invece, racconta tutto, sin nei
minimi dettagli, con un terrore che ancora si fa vivo: forse perché parlare permette di superare.
I ragazzi e i due
bambini tirano fuori certi argomenti con le molle – il racconto di
una volta sola, perché, anche se sembrava un film, era il film della
loro vita, quello di cui erano protagonisti. Un film doloroso che,
solo per caso, è finito bene.
Eppure, ti accorgi di
quanto questi racconti senza telecamere, fatti nell'intimità di un
pranzo o di una cena, suscitati da un piccolo odore o da un oggetto,
siano racconti pieni di dignità. Oggi, in mondovisione, si chiede
con facilità sconcertante: “Cosa ha provato in quel momento?” - come se dire il sentimento permetta di condividere l'incondivisibile.
Il fatto, però, è che
certe cose non hanno parole.
Nello sguardo pieno di
ritrosia e malinconia di quei ragazzi e di quei bambini, nel loro
sguardo silenzioso si avverte tutto. Sembrava un film, ma non lo era.
Perché certa realtà squarcia la vita e certe immagini – non
quelle dei film – non smettono mai di passare davanti agli occhi.
Con questo post partecipo
alla commemorazione
in occasione dei
settant'anni dal bombardamento della mia città.
Una città tra le tante
ferite, una come tante, una per ricordarle tutte.
14 maggio 1943
Commenti
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http://lovedlens.blogspot.it
M.
ma per fortuna certe immagini dolorose non sono completamente condivisibili, o temo che impazziremmo.
Complimenti per lo stile del post.