La grande illusione
Titolo originale: La grande illusion - Anno: 1937 - Nazionalità: Francia - Genere: Storico, Drammatico - Regia: Jean Renoir
1937. Il sonoro aveva fatto la sua comparsa da dieci anni appena. Negli Stati Uniti
lo Studio System si consolidava. In quell'anno usciva Biancaneve e i
Sette Nani della Disney. In Unione Sovietica, Ejzenstejn girava e vedeva
distrutto Il Prato di Bezin, oggi visibile solo attraverso un
montaggio di fotogrammi - probabile capolavoro, vista la qualità della costruzione scenica che si evince
dalle foto.
Disney, Ejzenstejn,
Renoir. Le tre più grandi cinematografie del mondo si davano
battaglia. O, meglio, davano prova della sperimentazione e
dell'altezza qualitativa cui un'arte relativamente nuova come il
cinema poteva arrivare. Tre diverse "scuole" e tre modi per
dare linfa alla settima arte.
Jean Renoir è il figlio
del pittore Auguste - il più gioioso degli
impressionisti, gioioso fino alla fine della sua vita, quando, pur costretto
dall'artrite e non potendo afferrare alcunché, non rinuncia a
dipingere e si fa legare i pennelli sui polsi. Gioia di vivere. Jean
cresce in un ambiente intellettuale e artistico di sicuro vitale. E,
con la sua arte cinematografica - concedetemelo - mette in ombra
anche il nome del padre.
Nel
1937, Renoir gira La grande illusione, film di un'attualità formale
sconcertante. Drammatico, eppure gioioso. Moderno, nuovo, mai visto. Renoir ha una padronanza della
macchina da presa inusuale. Si svincola da ogni regola, gettando le
basi per l'altro cinema, quello non allineato con Hollywood e con il
linguaggio classico. Eppure il film si segue. Il film avvince. Il
film è bello. E, questo, nonostante il modo di narrare non si appoggi
a quei raccordi (visivi ma soprattutto psicologici) che annullano la presenza della macchina da presa.
La macchina da presa si
sente, eccome!
La macchina da presa, la
regia e Renoir sono negli scavalcamenti di campo; nei raccordi non
rispettati; nella profondità di campo; nelle finestre che si aprono
e fanno da schermo nello schermo; nelle costruzioni teatrali di
corpi vivi ed esuberanti; nei movimenti di macchina; nella storia
occlusa e soffocante; negli interpreti, di una bravura incommensurabile.
Gli attori principali sono tre: Pierre Fresnay, l'altolocato, l'elegante, il nobile;
Jean Gabin, un virgulto bellissimo di trentatré anni, istrione,
esagerato eppure estremamente naturale (due anni più tardi sarebbe
stato il disperato protagonista di Alba tragica); Erich von Stroheim,
un impeccabile protonazista, fermo, eretto, una mimica tutta sua -
ormai più attore che regista, personaggio circondato da un'aura
mitica, maledetta, quella dei film in bianco e nero illuminati dagli occhi
esagitati dei protagonisti.
Esercito francese contro
esercito tedesco, durante la prima guerra mondiale. Il tenente
Maréchal (Gabin) e il capitano de Boëldieu (Fresnay) vengono
abbattuti durante una ricognizione area e fatti prigionieri in un
lager gestito dal Capitano von Rauffenstein (von Stroheim), un
militare reso storpio da un'azione di guerra – è completamente
bruciato, ha la spina dorsale fratturata in due punti ed è costretto
a vivere con una lamina di metallo in corpo e a indossare perennemente i guanti per non mostrare le ustioni.
Tra i prigionieri e il
carceriere, però, c'è una grandissima stima reciproca. Tra i tre
non si avverte mai tensione: perché sanno tutti che la guerra ha
delle regole e che quelle regole formano un gioco. Renoir riflette
costantemente sul gioco della guerra, dando ad essa una connotazione
infantile: si gioca a far la guerra, i soldati giocano come
ragazzini, i ragazzini giocano a fare i soldati. L'intenzione è
chiara. La guerra non ha alcun significato, se non per quelle regole
che la caratterizzano e che sono totalmente fuori dal mondo "normale".
Il gioco è semplice: uno incarcera, l'altro si sottomette;
l'imprigionato prepara la fuga, il carceriere gli spara. La guerra,
da Renoir, è spogliata di quasi tutto il suo valore violento e
tragico, mostrandocene, così, l'inutilità. Però, anche se è un
gioco, la guerra finisce sempre con la sofferenza e la morte. Perché
soffrire davvero se si sta giocando (per finta)? In fondo, lo sanno
tutti i personaggi: si gioca a far la guerra pur senza vera ostilità.
E, quindi, la guerra finirà? Non ci illudiamo – dice Rosenthal, l'ebreo, alla
fine del film, nel 1937, a due anni dalla Seconda Guerra Mondiale –
lo sappiamo tutti che ce ne saranno altre!
Maréchal e Rosenthal
pianificano la fuga, riescono a fuggire e la grande illusione di pace
si manifesta nella grande distesa di neve che, in campo lunghissimo,
ci mostra i due personaggi in Svizzera, salvi in zona neutrale.
Maréchal e Rosenthal hanno vinto il gioco; il capitano de Boëldieu si
fa sparare perché sta al gioco. In tutto il film, sotto il gioco,
aleggia però la voglia di libertà: la voglia, cioè, di vivere una
vita tranquilla, lontano dal fronte, la voglia di mangiare bene, di girare per
locali, di abbracciare donne. Il gioco si rivela in tutta la sua
potenza quando arriva nel campo di prigionia una cassa di abiti da
donna. I soldati impazziscono, toccano le calze, chiudono gli occhi,
immaginano. E poi si vestono da donna. Cantano, ballano, fanno gesti
da donne leziose, si guardano l'un l'altro sbalorditi, un po'
estasiati, un po' ammiccanti ed esprimono un femminile che, nel film,
manca: perché le donne non stanno al gioco degli uomini. La guerra, le donne non la fanno, rimangono in casa, sole, vedove e dispensano gentilezza
e generosità a chiunque, anche al soldato nemico – come farà
Elsa, l'unica donna del film. Non ci sono sparatorie né trincee:
eppure Renoir sa dare bene l'idea di sfiancamento, stasi e posizione
che solo la Grande Guerra ha saputo dare. E fa di più: anticipa ciò che, di lì a poco tempo, avrebbe messo di nuovo a ferro e fuoco il mondo intero.
Tuttavia, senza un Gabin,
uno Stroheim e un Fresnay, Renoir non avrebbe potuto raggiungere il
risultato che ha raggiunto. La bravura degli attori è subito
visibile, perché tutti e tre propongono una recitazione completamente diversa da
quella meccanica e (spesso) "in serie" dello Studio System: i tre
soldati sono l'espressione di una scuola di recitazione europea che
(come quella asiatica) ha secoli di tradizione e di studio faticoso alle spalle.
Inutile dire che ogni gesto, ogni sguardo, ogni mossa impercettibile
del volto è voluta e allo stesso tempo naturale, improvvisata.
Gabin, Stroheim e Fresnay stanno al gioco. Renoir gira un grande gioco. E,
due anni più tardi, il regista avrebbe girato quell'intreccio di corridoi,
stanze e personaggi che, forse non a caso, si intitola La regola del
gioco.
[Il mio personale omaggio ad un film che, visto anni fa, per troppo tempo ho dimenticato]
Commenti
Il tuo excursus sulle sue capacità poi mi attira moltissimo:
Sempre coinvolgente, competente, puntuale e trascinante la tua maniera di raccontare il cinema cara Veronica: bravissima!
E adesso non mi rimane che deliziarmi con la visione di questo capolavoro..
Renoir padre è stato di sicuro grandissimo, ma per la storia del cinema Renoir figlio è proprio un "progenitore", la fonte del cinema moderno, una delle basi da cui molte cose sono nate...
Seguirò il consiglio che hai dato a Debora sul film da cui iniziare! :)
Il problema è che Renoir è poco conosciuto dal grande pubblico italiano, ma per la Francia è una sorta di Fellini francese. Renoir è una pietra miliare. Io (e la mia generazione) all'università ho avuto una forte formazione renoiriana e francese in generale, perché dalla modernità di Renoir è nato un certo cinema... E se non ci fossero stati i vari intellettuali/registi francesi (Bazin, Godard, Truffaut), oggi non ci sarebbero tutti questi blog di cinema sparsi per il web.
Io adoro alla follia i film in bianco e nero e quelli color seppia, pur essendo figlia del colore elettronico e digitale... :). Accanto a La regola del gioco, se vuoi, puoi vedere Alba tragica: non è di Renoir, è di Carné, ma c'è un Jean Gabin epico!
Ti volevo fare i complimenti per i tuoi pezzi, anche quelli che non riguardano il cinema, o non "solo" il cinema...sono coinvolgenti, ricchi di dettagli e sempre molto profondi. Insomma, il tuo blog da un pò è nella mia lista dei preferiti e lo leggo spessissimo :)
...tra l'altro, ho scoperto che abbiamo avuto entrambe una folgorazione per "Drive"! ;)
un caro saluto,
Rossana
È davvero un piacere darti il benvenuto nel mio blog! Hai usato per me parole gentilissime e ti ringrazio infinitamente per questo :). Seguo anche io Solaris, è davvero un gran bel blog.
Spero di continuare a chiacchierare con te di molto altro.
Felice di condivide con te la passione per Drive!
A prestissimo e buon week-end :)!
Buona dimenica, Vele!
Si capisce che scherzo, vero?? Grazie mille delle belle parole!
Riguardo 'Drive'... mi è piaciuto molto ma non ne sono rimasto 'folgorato': per me il vero maestro del genere resta sempre Michael Mann, e 'Drive' non vale (ancora) 'Miami Vice' o 'Collateral'. Ma siamo sulla buona strada :-)