Astronauti
Sono le sette e trenta del mattino. La strada è deserta ma non è libera. Il furgone del netturbino è di traverso e il netturbino è sceso per raccogliere la carta.
Dalle casse dell’auto, Thom Yorke mi fa sapere che I wish I was special, you’re so fuckin’ special. Il netturbino fa il giro delle rastrelliere, controlla che non ci sia carta in giro.
But I am a creep, sussurra Thom.
Non muovo un muscolo, non accenno a posare la mano sul clacson, è ancora presto, ma anche fosse tardi non potrei mai perdermi la scena. Il ragazzo fa un altro giro attorno al furgone, torna indietro, vede una cartaccia a terra vicino allo pneumatico. La raccoglie, la lancia verso il camioncino, ma il muro dell’aria fa la sua parte, la carta volteggia nel senso opposto e si adagia di nuovo a terra. Lui non se ne accorge. I want to have control - mi dice Thom. Vorrei averlo anche io. Vorrei avere lo stesso controllo della cartaccia destinata al macero e che invece si libera del ciclo di differenziazione ondeggiando in aria, con eleganza, inerzia, rassegnazione forse. Penso a come ondeggiavano i piccoli astronauti in quel corridoio dipinto. Penso alle astronavi in cui entravano, sempre troppo grandi e impegnative per i loro piccoli passi nell’universo. Penso alle attese e alle discese, quelle ripide che ti mordono lo stomaco. Penso al buio e alle notti insonni, alle ore tutte uguali e ai risvegli di mattina che non sono mai risvegli, ma un continuo spazio tempo, eterno, ritmico, lento e senza un sussulto. She run, run, run, run, RUN urla la voce di Thom, che ora diventa piena e senza sgranature. A volte è la rabbia a salvarti, altre sono le lacrime, spesso è la musica, quasi sempre sono le parole. Le ingoio - la strada è libera e ancora deserta, ingrano la prima, sento persino il rumore della foschia che si dirada e lascia spazio a un po’ di sole.
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