L’atelier del pittore
Avevo intenzione di iniziare questo anno del blog con tanta voglia di riprendere a scrivere con più continuità; di parlare delle cose che più mi appassionano, il cinema, l’arte, le Serie tv, i libri.
Eppure, passati pochi giorni dall’inizio di gennaio, mi sono trovata a fare una riflessione, nata per caso. Ero in classe e spiegavo L’atelier del pittore di Courbet. Non il miglior dipinto dell’artista, secondo me, non uno dei miei preferiti. Eppure mi capita spesso che, mentre spiego e arrivo in fondo alla questione del quadro, io mi ritrovo ad amarlo - il quadro. Amo più l’idea dietro l’oggetto, che l’oggetto in sé. Tutta colpa di Argan.
Insomma, spiegavo il quadro, i due grandi gruppi di personaggi. Gli intellettuali, i filosofi, gli artisti da un lato: coloro che si accorgono di vivere e vivono di vita. Dall’altro, un becchino, una prostituta, sacerdoti, un clown: coloro che vivono meccanicamente.
C’è chi si accorge di vivere e lo fa riflettendo e amando ciò che vede e chi vive per inerzia.
Stavo spiegando questo concetto, ho avuto la fortuna e l’immenso privilegio di farlo, di farlo davanti a degli adolescenti che, giustamente, non ti capiscono proprio del tutto e che sono lì per imparare qualcosa da te.
Ho capito perché scrivo meno, scrivo poco o non ne sento proprio l’esigenza: si scrive quando si ha bisogno di comunicare qualcosa, di esprimersi. Io ho la fortuna di fare un lavoro che mi permette ogni giorno di esprimere fin nel profondo ciò che amo e dii comunicarlo a qualcuno che, anche con una minima percentuale delle mie parole, pian piano, crescerà.
Al di fuori delle classi, ho giornate pienissime, riempite da due guance che sono l’opera d’arte della mia vita.
Non sento l’esigenza di scrivere, sempre e comunque. Sento l’esigenza di continuare a riempirmi la vita. E scrivere è qualcosa che faccio, sempre, ogni volta che guardo ciò che vedo, ogni volta che vivo ciò che sento - anche se non prendo una penna in mano.
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