L’invenzione del suono




Chuck Palahniuk è tornato alla narrativa. L’invenzione del suono si configura come una storia estrema, folle a dir poco, costruita ad arte come solo Palahniuk sa fare. 

Il punto non è raccontare la trama o dire se la storia, in sé e per sé, sia piaciuta o meno. Il punto è capire il percorso con cui si arriva alla fine del libro. 

L’invenzione del suono ti aggancia e non ti molla più. Sì, vuoi sapere cosa accade alla riga dopo, ma soprattutto decidi - più o meno consapevolmente - di farti trascinare dalla performance delle parole, dai loro incastri, dalla costruzione delle Frasi, dal montaggio di eventi, battute, scene e sequenze.

Montaggio, sì. Palahniuk si conferma come tra gli scrittori più cinematografici di sempre: non perché abbia una scrittura lineare o da sceneggiatura, ma perché sa esattamente usare la tecnica del montaggio per creare un senso; per creare un’emozione; spesso, per creare un corto circuito nella nostra mente, così assurdo e così coerente da spiazzarti. E cinematografica, in fondo, è anche la trama del libro. L’invenzione del suono riguarda la storia di una rumorista, Mitzy Ives, che produce suoni e rumori per il grande schermo in modo del tutto anomalo: ogni suono è un pezzo unico. Ogni suono è frutto - letteralmente - del sangue e del sudore si chi quel suono produce. Mitzy nulla però ricorda di ciò che realizza, perché ad ogni produzione ingoia come fossero caramelle pasticche di un tranquillante che le cancellano la memoria a breve termine. Al contempo, Gates Foster cerca sua figlia da diciassette anni. Lo fa infilandosi in un percorso di incontri costruiti ad arte, finché non incrocia lo stesso sentiero di Mitzy.

I due personaggi, forse tra i più iconici di Palanhiuk, assieme a quelli di Fight Club e Invisible Monters, vivono vite ed esperienze al limite tra realtà e finzione. Le due parti delle loro vite si mescolano. Spesso noi lettori sappiamo la verità, i personaggi no, poi veniamo smentiti. Siamo alle prese con un universo presente, reale, eppure distorto,  distopico, che è esattamente ciò che stiamo vivendo: un mondo fatto di immagini, costruite sulla base del nostro puro piacere visivo ed estetico e che spesso non sono la realtà. Sapere cosa sia davvero la realtà non è facile, ma non impossibile. Palahniuk la trova sempre e comunque nei nostri corpi, la sola cosa che ci appartenga. L’autore ha sempre preso i corpi dei suoi personaggi e li ha analizzati, piegati, tagliati, massacrati, rotti, distrutti, resi una massa di sangue e carne. In Fight Club si combatteva per arrivare fino in fondo a se stessi. In Invisible Monsters la modella con la faccia deturpata e la lingua penzolante ci voleva dire che tutto ciò che siamo non è l’immagine di noi stessi ma quel grumo di carne, muscoli, ossa - e quindi sofferenza - che si cela Sotto la nostra pelle. Ne l’invenzione del suono è proprio il suono ciò che caratterizza più di ogni altro noi stessi. Se anche il corpo si riduce a mera fotografia, a filtro su Instagram, a modifiche chirurgiche e da

Photoshop, allora il suono, quello che nasce dal nostro diaframma e che si arrampica lungo la trachea, è quanto di più vero e primordiale ci sia. È l’urlo della donna che partorisce, è l’urlo dell’uomo che soffre e muore. Il suono è ancora vero perché impalpabile, non esiste una fotografia che possa immortalarlo. Può essere distorto, modificato, montato. Ma l’urlo istintivo e primitivo può ancora dirci tanto di noi uomini.

Che siamo alla continua ricerca di un’identità e di un appiglio e che, pur di definirci in qualche modo, perdiamo consistenza e ci riduciamo a immaginette.

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