Tutta una questione di comunicazione



Non sono una persona che parla molto. 

Anzi, non parlo affatto. Spero sempre che gli altri mi capiscano a prescindere, solo a partire da un mio modo di piegare le labbra, di abbassare gli occhi, di grattarmi la fronte, di sospirare. Mi convinco che gli altri possano capirmi perché ho fede cieca nell’empatia: io sono esageratamente, forse anche patologicamente, empatica. Avverto nell’aria le vibrazioni negative o positive di chi mi sta attorno, riuscendo a stare male o bene solo per identificazione. Se qualcosa non va lo capisco subito - e mi ritrovo a fare tremila volte al giorno la stessa domanda: “è tutto a posto?”

Tuttavia, l’empatia è una qualità - sì, sono immodesta, ma credo di possedere questa qualità - che non tutti possiedono. Si è soprattutto concentrati su se stessi, sul proprio centro, e su cosa fare per ottenere ciò che si vuole; l’altro diventa un problema solo se il problema viene sbandierato ai quattro venti. Se non si parla, se non si vuole parlare, anche solo per via del fatto che certi malesseri sono difficili da districare con le parole, allora è come se tutto andasse bene. 

E si può passar oltre. 

L’empatico che non parla, però, non passa oltre. Capisce solo che gli altri non sono così attenti; capisce che dovrebbe fare di più, dovrebbe parlare, spiegarsi di più, ma non può farlo. Perché l'empatia, per sua natura, è così. En è in, patheia è sofferenza: il percorso è solo dall’esterno verso l’interno, io capisco te ma non riesco a farmi capire da te. 

Ci si appella solo al buon cuore di chi ti conosce da una vita e forse - dico forse - potrebbe capire che i tuoi rimuginamenti, le tue paturnie, meritano un po’ più di rispetto, di silenzio - per riattaccare i frammenti di quella fragilità che ci pervade.


Per questo, mi sento come un neonato. In una delle scene più toccanti della serie tv This is us, un personaggio afferma che i neonati sanno già tutto: siamo noi adulti a pensare che i bimbi non sappiano fare nulla solo perché non riusciamo a capirli, perché non ci mettiamo in ascolto. 

Il neonato sa perfettamente che vuole stare attaccato alla mamma giorno e notte, che vuole starle attaccato al seno per mangiare, dormire, coccolarsi, divertirsi, passare il tempo, ma lo fa comunicando con un suono privo di parole, primitivo, che nessuno comprende, ma non per questo stupido. O meglio: che tutti hanno dimenticato di comprendere.

Spesso, anzi sempre direi, avverto con largo anticipo che la mia peste non mangerà: magari io ho mal di stomaco, magari sono troppo piena, so che lo è anche lei; avverto che non dormirà: sono io insonne e lo sarà anche lei; avverto che ha sonno, ma è troppo stimolata: so che ci vuole buio e silenzio ma magari siamo in situazioni in cui è difficile ottenere ciò che dico - sia perché non so parlare, sia perché spero che gli altri mi comprendano, sia perché come madre mi sento mancante, pessima, fallita e bla bla bla quando invece dovrei sentirmi ipercompetente, solo perché sono competente verso la mia peste - e solo verso lei, non verso altri bambini. 


Me ne rimango così un po’ empatica patologica incompresa, un po’ madre incompetente e un po’ neonata inascoltatata. Mi sento ancora più fragile e le paturnie, i pensieri aumentano. 


Ma dimentico che i neonati sanno già tutto: sanno mangiare, dormire, succhiare, sanno cosa vogliono. E così anche le madri sanno già tutto: sanno partorire, sanno allattare, sanno capire il proprio figlio meglio di chiunque altro. 

Vorrei saper comunicare di più. Forse è meglio che mi convinca di non essere del tutto compresa, ma di essere sicura e fiera di ciò che sto facendo. 

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