La terra dell'abbastanza
Quello che c’è.
Queste sono le ultime, lapidarie battute che chiudono La terra dell’abbastanza, il film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo.
Dirò la verità: per quanto ben girato e con un argomento forte, sorretto da due attori protagonisti giovanissimi, bravissimi e tosti come non mai, il film mi ha preso poco. O meglio: ha coinvolto meno la pancia - quasi per niente - e più la testa. L’ho trovato impeccabile per il rigore dell’idea di base, perfettamente corrispondente al girato, ma lo ho trovato poco coinvolgente. Solo quelle due battute finali mi hanno preso, coinvolto e sconvolto al tempo stesso, ricongiungendo, in uno stesso istante, testa e pancia.
Nel mio viaggio cinematografico nelle periferie romane, mi sono trovata a confrontarmi con La terra dell’abbastanza dopo Non essere cattivo e Lo chiamavano Jeeg Robot. Per quanto i fratelli D’Innocenzo siano bravissimi, sono arrivati dopo un mostro sacro e un film che sovverte molte regole; e forse mi sono sfuggite tutte le novità con cui i due registi si sono posti rispetto al soggetto e al profilmico. Indubbiamente, la lucidità con cui i D’Innocenzo hanno affrontato la loro opera prima, il loro rigore compositivo, la scelta dei due mastodontici attori sono i cardini su cui ruota il film e, suppongo, su cui ruoterà la loro carriera.
Tra gli elementi strettamente cinematografici di grande caratura emerge di sicuro il presupposto: La terra dell’abbastanza vuole essere il figlio ideale di Non essere cattivo. I due giovani protagonisti, Mirko e Manolo, sono chiaramente i figli di Cesare e Vittorio, anche nella scelta fisica dei due attori: uno biondo, occhi azzurri e ben piazzato come Alessandro Borghi; l’altro magrissimo e con la “scucchia” ben pronunciata alla Luca Marinelli. Sembra quasi che i due vogliano raccogliere l’eredità, concettuale e in parte formale, di Caligari. Alla fine di Non essere cattivo Cesare lascia al mondo un figlio. La fine delle borgate pasoliniane, incarnata dal trip lisergico di Cesare e Vittorio, spinti a consumare e consumarsi nella droga, nel lavoro, nel nulla, viene ulteriormente superata dalla nuova realtà delle periferie della Capitale (qui non Ostia ma la nuovissima Ponte di Nona), quella incarnata da Mirko e Manolo. Ne La terra dell’abbastanza non c’è la voglia di riscattarsi lavorando, non c’è neppure quell’autodistruzione romantica perpetrata dall’uso imprescindibile della droga, che nei primi anni Novanta iniziava a colpire violenta una generazione che non faceva né arte né musica, ma che si dissipava nel nulla senza costruire nulla.
Ne La terra dell’abbastanza c’è solo quello che basta: fare i soldi, in qualunque modo questi arrivino. Comprarsi le scarpe, comprare i vestiti alla fidanzata, fare la spesa al supermercato, regalare alla sorellina un tablet per il compleanno. Nulla più di questo: il consumismo è solo consumo per il consumo, da procrastinare con quanti più mezzi possibili: se facili e illeciti ancora meglio. Così, la vera adrenalina non è data da un acido o dalla cocaina, ma dall’impugnare una pistola, magari uccidendo, magari sparando ripetutamente dove già si è ucciso: e la violenza è solo reiterata senza essere troppo vissuta. Segno che si è toccato il fondo dell’annullamento dell’umanità. Qui la voce non trema come a Cesare, mentre dice “svuota la cassa o t’ammazzo come un cane”; Cesare - non ci credeva neppure lui che avrebbe sparato o ucciso: e infatti s’è fatto sparare. Ne La terra dell’abbastanza si spara, con qualche scrupolo, forse. E quando lo scrupolo diventa consapevolezza d’aver sbagliato, il karma della periferia malavitosa si presenta con il conto, distruggendo la vita di due ragazzi senza che questi abbiano potuto riscattarsi in alcun modo. Tutto appare - credo volutamente - distante. Mirko e Manolo sembrano vicinissimi alla violenza che compiono eppure appaiono distanti e anestetizzati. Come distanti siamo noi - e la macchina da presa - dalle morti dei due ragazzi, che ci aspettiamo, in fondo, e a cui arriviamo, appunto, anestetizzati.
Così, quando alla fine del film, i genitori di Mirko e Manolo si scambiano le due battute che ho riportato all’inizio, capisci davvero il senso di tutto - e soprattutto di chi è la colpa. Preparare a un figlio “quello che c’è” senza spingersi oltre i confini di una borgata e di una provincia mentali è il più grande delitto di padri e madri. Ho visto il film più di due mesi fa, ma la riflessione è arrivata a maturazione lampante solo ora. Sì, adesso, in tempo di ripresa forzata dopo l’emergenza del Coronavirus. La fase due (o tre, mica ho capito bene in quale siamo) mi ha messo di fronte ancora una volta al concetto di normalità. Dovevamo davvero tornare alla “normalità” pre-covid? O forse dovevamo cogliere la funesta occasione per superare i nostri limiti e migliorare la società - in rapporto alla natura, al lavoro, all’economia, alle relazioni umane? Dovevamo aspettare il Covid per capire che la sanità pubblica è un bene e deve godere di specialisti, infermieri e posti letto in reparti non affollati? Che non si può stare in trenta in una classe di pochi metri quadrati? Che non si può stare ammucchiati sui mezzi pubblici? Che i mezzi pubblici devono essere puliti e potenziati? Che le strade non trafficate sono più vivibili? Che l’inquinamento acustico è fastidioso (quanto ho apprezzato il silenzio sotto casa!)? Che l’economia e il lavoro online possono supplire a tanti ostacoli e forme di disagio e che possono unire persone lontanissime? Ero convinta che da un avviso così estremo come quello dato all’umanità dal Covid il mondo sarebbe cambiato: non subito, non repentinamente, ma che almeno si fossero gettate le basi per vedere il mondo in modo nuovo. Al momento, invece, mi sembra solo che ci stiamo rifugiando nella nostra terra dell’abbastanza: la cosa più facile, la normalità che conoscevamo, fare esattamente le stesse cose di prima, solo che con una mascherina indosso - ma non necessariamente la scelta migliore. Per i nostri figli abbiamo il dovere di dare nuove prospettive, di uscire dalla periferia che ci ingarbuglia la mente, di essere più creativi, rispettosi di tutti e dell’ambiente, di privilegiare la qualità, nei rapporti con gli altri e con il mondo circostante. Abbiamo il dovere di preparare non quello che c’è, ma di oltrepassare l’orizzonte che, là in fondo, vediamo.
Commenti