Lo stato naturale delle cose
È un giorno particolare questo per me. Non starò a dire perché e percome, dirò solo che il 31 di ottobre ricorre un giorno speciale con cui non sono mai riuscita ad avere a che fare.
Festeggiare? Trascorrerlo come un giorno qualunque? Ma no: in ogni caso è un giorno che passa con una sorta di scintillio che non mi lascia né troppo tranquilla, né troppo contenta, né qualsiasi altro aggettivo voi vogliate mettere.
Quest’anno in particolare la giornata si fa ancora più strana, soprattutto per una serie di eventi che si sono avvicendati nel lontano e nel più recente passato e che non mettono affatto voglia di festeggiamenti.
Eppure qualcosa devo dire: e per ergermi con un po’ di coraggio contro gli eventi tristi di cui sopra, per festeggiarmi e per festeggiare la vita, parlerò forse dell’impresa più dura, sfiancante ma anche gratificante e produttiva, senza dubbio la più importante che mi sia mai capitata nella vita.
Allattare.
Parlo di allattamento esclusivo al seno, prolungato e preferibilmente a termine.
Qualcosa che forse a parte qualche pazza come me (ma siamo in tante a farlo) oggi è ancora appannaggio dei soli animali, come le gatte sdraiate - stanche e regali allo stesso tempo - con i loro micetti ciechi e sempre più pestiferi.
In questa storia c’è una componente razionale (un lavoro con caratteristiche e diritti che mi hanno permesso il lusso di allattare al seno) e una componente prettamente irrazionale, chiamiamola viscerale, antica, istintiva. Sono la prima a dire che di allattamento non sapevo nulla, né dell’allattamento immaginavo la portata. Sono la più grande di una sorella e di tanti cugini e mai ho visto madre e zie attaccarsi i pargoli al seno. Era un continuo di misurini e formule in polvere e biberon e ciucciotti e sterilizzatori. Ricordo bambini che iniziavano a mangiare molto presto, a tre - quattro mesi circa, e che stavano tutto il tempo con il ciuccio in bocca.
Poi, non so bene quando, le cose sono cambiate: e le mie amiche diventare madri prima di me hanno allattato solo al seno per molto a lungo. Non capivo. Mi chiedevo: dovrò fare come mia madre? Sicuramente sì: se lei non ha avuto latte, non ne avrò nemmeno io.
Nessuno mi aveva detto che metterti il bimbo sulla pancia nuda appena nato e poi attaccarlo al seno nelle due ore successive al parto e poi attaccarlo al seno a ogni piccolo pianto avrebbe significato allattare. Che allattare significava non solo nutrire lo stomaco del bambino, ma anche molto altro.
Non ho deciso io di allattare: piuttosto è stata la mia peste a decidere che doveva prendere il mio latte - e io, nel recesso più nascosto e profondo di me, sentivo che era la cosa giusta, l’unica da fare. Notti totalmente in bianco, dolore ai capezzoli, mastiti continue, impossibilità di fare qualsiasi cosa, anche la più semplice, come andare in bagno: eppure la mia me più antica e ancestrale diceva che non poteva cedere, che abbandonare quel nutrimento così sanguigno era sbagliato, che avevo una responsabilità profonda e viscerale, che non potevo esimermi, no, che io ero lì per quello, anche a costo di annullarmi. Era tutto un: ma forse non hai latte, ma riposati, ma chi te lo fa fare, ma allatta quaranta giorni e smetti, tre mesi e smetti, ma dai l’artificiale, ma di artificiale non è morto mai nessuno e via dicendo.
Probabilmente avrei accettato e compreso molto prima quello che stavo facendo se attorno a me non avessi visto solo biberon e formule: le uniche cose intese come normali e naturali, mentre l’allattamento al seno continuava a essere visto come una pratica aliena.
E invece era esattamente il contrario. Dovevo solo azzerare tutto ciò che di artificiale e costruito c’era nel mondo. Culle, sdraiette, ciucci, biberon... tutto, tutto artificiale e inutile. Non appena ho assecondato la mia peste, anziché gli oggetti dei costrutti umani, tutto è cambiato: seno, ninna insieme, seno, si calma, seno, finalmente si dorme, seno, si coccola, seno, va a giocare. E più andava (e va) avanti la cosa nel tempo, più mi accorgevo (e mi accorgo) che la peste si faceva (e si fa) autonoma e spigliata. Più andavo e vado avanti, più il mondo ruota attorno a questa modalità tutta nostra di essere legate e anche tutto il resto diventa più semplice e naturale: uscire, mangiare, dormire, persino andare a lavoro.
Non dico che tutte debbano fare quello che ho fatto io, perché quello che ho fatto io è una mia scelta dettata dal rapporto tra me e la mia prole e dal modo in cui sono fatta io. Io che, in ogni cosa, amo sporcarmi le mani e vivere tutto il più a fondo, il più profondamente, il più naturalmente possibile. Dico, semmai, che le cose spesso vanno così, senza decisioni prese in anticipo. Semplicemente accadono. In modo naturale. E so che questa è la cosa più vera e che più mi lega al mondo, all'esistenza e alla natura, la cosa più giusta che io abbia mai fatto in vita mia.
Commenti