La seconda stagione di Suburra



La seconda stagione di Suburra è stato un evento familiare epocale: siamo riusciti a vederla in tre giorni. Ripeto: tre giorni. 

La prima stagione di Suburra fu un evento altrettanto epocale perché ci piacque talmente tanto che ci lasciammo andare a fuoco le pupille con una visione continua delle puntate, esaurendo l’intera serie nell’arco di ventiquattro ore. Anzi, dirò di più: io ero in attesa e grossa e lenta e non riuscivo a fare molto altro se non stare sdraiata sul letto: a vedere la prima stagione di Suburra per la seconda volta.
Poi siamo diventati tre e vedere anche le pubblicità in tv, seguendone il breve climax delle storie o dei jingle, è diventato quasi impossibile.
Siamo riusciti a intravedere la terza stagione di Gomorra, per la quale avremmo bisogno di un riassunto ragionato, e a tenere testa alla seconda stagione di Rocco Schiavone, che abbiamo completato grazie a RaiPlay e con una settimana di ritardo. 
Ma, ecco: riuscire a vedere una stagione in tre giorni, seguendola bene, comprendendone le dinamiche e i collegamenti, non è da poco. Rimane da capire se per le serie che valgono davvero siamo disposti a sacrificare il sonno pur di guardarle o se ormai siamo genitori così navigati da riuscire a seguire anche le nostre passioni.

Ma torniamo seri.

Ho fatto un collegamento non causale con Gomorra e in particolare con Rocco  Schiavone. Suburra, in fondo, non fa che alimentare ulteriormente qualcosa che da tempo molte serie tv stanno inscenando e sdoganando: la denuncia e il fascino del male
Sostengo che se mettessimo assieme le visioni di Gomorra, 1992-1993 e di Suburra avremmo la visione più o meno completa del malaffare italiano, dei sui intrecci con la politica e con forze oscure che noi poveri umani mai e poi mai immagineremmo. Sono, appunto, in primo luogo racconti di denuncia, che si inseriscono nel filone dell’inchiesta e che, anziché diventare documentario o cronaca giornalistica, diventano storie con personaggi e trame ben assestate. 
Ed eccoci al fascino del male. Da quando abbiamo iniziato a identificarci con chi commette reati e azioni inenarrabili? E soprattutto: perché?
Quand’ero bambina, una serie cult fu La Piovra, che però aveva una distinzione netta tra "buoni" e "cattivi". 
Nelle serie tv a cui assistiamo oggi, i topoi del buono e del cattivo, del protagonista e dell’antagonista, non esistono più. In Gomorra, polizia e forze dell’ordine non compaiono proprio. E tu lì ti appassioni a una storia che ti permette di scegliere se identificarti con i capi vecchi o con quelli nuovi, con la camorra a Roma o con quella di Secondigliano.
Suburra, addirittura, fa di più: perché la polizia appare, ma è corrotta. 
Ci si ritrova di fronte a tre ragazzetti - a tre pischelli, diremmo dalle nostre parti  - che vogliono prendersi Roma rubandola ai “vecchi”. Solo il modo in cui si chiamano o si acconciano o pronunciano quel romanesco così caratteristico eppure colloquiale e naturale, ti fa identificare con loro. 
Me lo chiedo: cosa, di tutto questo, piace così tanto a noi (spettatori) che siamo persone normalissime, che non abbiamo commesso nemmeno un’infrazione al codice della strada, paghiamo tutte le tasse e le bollette, ci sentiamo in colpa se eliminiamo una zanzara d’estate ed esponiamo i secchi della differenziata nei giorni giusti?
Forse, mi rispondo, ci affascina essere quello che non siamo e che non saremo mai. Il male ci affascina in quanto proibito - proibitissimo e per fortuna inaccessibile - e per questo ci identifichiamo.

A questo aggiungerei che Suburra ha qualche punto in più dalla sua parte per permettere un gioco di identificazione efficace. Se Gomorra rimane forse il più cronachistico e vicino all’inchiesta (tanto che molto poco si indugia sull’interiorità dei personaggi) e se 1992-1993 appare più patinato e glam (ma la serie meriterebbe un discorso a parte), Suburra, nel suo mostrare il malaffare romano radicato sin dai tempi di Cesare, inserisce elementi tipici dell’epos: il rapporto tra generazioni, lo scontro tra padri e figli, l’amore, l’affermazione della propria individualità. Tanto è vero che la prima stagione di Suburra sembra essere un romanzo di formazione (al contrario?), mostrandoci i tre personaggi, Aureliano, Spadino e Gabriele, estremamente determinati nell'affermare loro stessi contro i propri padri, non solo dal punto di vista del potere, ma anche inconscio e quasi psicanalitico.  La seconda stagione vede i tre ragazzi già instradati ma che comunque nella loro ascesa verso il potere si trovano ad affrontare nuove prove. 
Le prove che un tempo portavano l’eroe a sbocciare nella sua integrità morale ora sono quelle che portano l’antieroe (se di antieroe basta parlare) a peccare gloriosamente. Il rap che accompagna i titoli di coda delle due stagioni riporta tutto allo stato giusto delle cose: ci racconta chiaramente ciò che non va a Roma (e nel mondo) e risveglia lo spettatore dallo stato di torpore in cui è stato per quaranta minuti, come a dire “ehi, svegliati, sta roba che t’appassiona tanto succede per davvero!”. 

Ho citato anche Rocco Schiavone e non a caso: Schiavone è trasmesso dalla tv generalista e ha avuto grande successo. Ciò significa che anche a livello di pubblico medio lo stesso fascino del male fa presa: perché Schiavone piace proprio per il suo essere tormentato, un momento dalla parte del bene e il momento dopo peccatore e colpevole. In fondo è un vicequestore che si è potuto permettere un attico al centro di Roma in modo poco pulito e che ha tre amici che vivono nell’ombra. Non a caso, Seba, il migliore amico di Rocco, è interpretato dallo stesso attore che in Suburra la serie interpreta Samurai, l’uomo che nella Suburra tesse i fili che collegano il male di Roma dal Campidoglio alla Santa Sede, passando per i quartieri difficili. 

Prima ancora che del livello formale, sono queste le cose che affronto nel pensare a Suburra. Anzi, forse le due cose sono strettamente legate: la fotografia traslucida, metropolitana, al neon, umida sui vetri e sui sampietrini; la sceneggiatura dal meccanismo pressoché perfetto; il livello cinematografico della recitazione degli attori; il montaggio e la colonna sonora, inscindibili; e, nel mio caso, anche luoghi che vedo tutti i giorni e alcuni meno conosciuti che conosco piuttosto bene, la grande, mostruosa Vela di Calatrava che campeggia ovunque nella serie e nello skyline di chi vive a Sud di Roma, dalle borgate di periferia fino ai paesini senza tempo che da Roma distano anche settanta-ottanta chilometri: tutto questo fa sì che il fascino del male renda l’identificazione ancora più facile.

Forse, serie come questa ci mettono di fronte al lato oscuro di ognuno di noi, ci impongono di chiederci se a livello civile saremmo impeccabili o se saremmo in grado di cedere alle forze oscure del sottobosco; sono serie, queste, che vanno ben oltre il giusto e lo sbagliato e che ti mettono di fronte a te stesso: per la vita che ho, che faccio, che mi sono costruito, sono in grado di essere integerrimo? Quello che vedo mi riguarda da vicino oppure sono così sicuro di me che posso concedermi quaranta minuti di “proibito”, tanto poi torno alla mia vita - giustissima - di tutti i giorni? E, pur essendo giusto, perché riesco a identificarmi con la smania di uscire fuori e di affermarmi contro i padri, contro tutti, contro il mondo? Perché riesco contemporaneamente a seguire la storia con passione di un delinquente muscoloso e tatuato, di un poliziotto corrotto e di uno zingaro - “e pure frocio!”?

Credo che queste siano serie tv prodotte da una generazione che il cinema, la
Tv e la cronaca, prima ancora di farle, le ha studiate: per vedere Suburra (o Gomorra) servono i mezzi culturali e una grande capacità di discernere nel proprio animo. 



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Credits.
La foto è stata scattata da me. 
Il libro aperto è Dentro l'Arte di Irene Baldriga, Electa Scuola, Mondadori Education. 

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