Periodo di grandi lievitati



I lievitati per me hanno sempre rappresentato un evento goduriosissimo: pane, pizza, cornetti, pain au chocolat, panettone, pandoro, la nostrana pizza di Pasqua… un festival di fermenti che dà solo gioie.
Prima li mangiavo soltanto, da qualche anno a questa parte mi cimento nella loro preparazione. Ci sono prodotti lievitati che possono essere realizzati con molta facilità - panini all’olio e pizza sono quelli che mi impegnano per meno tempo - altri, invece, hanno lavorazioni lunghissime, necessitano di grande attenzione tecnica e devono essere provati e riprovati per affinare la suddetta tecnica. Sono i cornetti o il panettone, lievitati con cui mi sono cimentata. Per i cornetti ho dovuto sperimentare moltissimo - forse solo nelle ultime sfornate ho raggiunto il risultato che volevo - mentre il panettone, sarà stata la fortuna del principiante, mi è venuto subito e benissimo. Il trucco, in questi casi, almeno secondo me, è guardare e riguardare i gesti dei maestri panificatori: la ricetta, in sé, dice tutto e dice niente, perché un elenco di cose da fare e di quantità da elargire sul piano di lavoro non aiutano. Nella preparazione dei lievitati vanno osservati attentamente i gesti, come la pirlatura del panettone, la sfogliatura dei croissant, le pieghe della pagnotta. Dico questo perché il lievitato va cresciuto e coccolato. Proprio come un bambino. Tempi lunghi di lavorazione e coccole non sono affatto sprecati: il profumo e la pasta tra le mani ti regalano ricche gioie. La lavorazione ti de-stressa e - non sono affatto esagerata - è una vera e propria metafora della vita. 

L’attesa. Credo che l’attesa sia forse l’elemento che tutti noi nelle nostre vite viviamo di continuo. Attesa della notte che passa, attesa della cena, attesa del weekend, attesa delle grandi feste. L’attesa può anche trasformarsi in qualcosa di oscuro. Anziché attendere cose belle, si attendono le cose meno belle, sperando che passino presto. Tipo: l’attesa degli esami. 
Poi, l’attesa può diventare anche il nulla più totale: attesa che avvengano cose brutte, sia sapendo per certo che avverranno, sia senza sapere che avverranno: solo vivendo una paura inafferrabile che qualcosa di brutto accadrà. Questa è la forma più angosciante di attesa, che porta ansia e fa vivere molto male la vita. 

Vi parla una che da sempre attende le cose con maggiore o minore ansia, con maggiore o minore contentezza. E che attende talmente tanto che teme - ebbene sì - che le cose belle che aspetta vengano coinvolte da qualcosa di brutto. È un modo terribile di vivere, lo so. Ho imparato a conviverci e a vedere anche il lato positivo della cosa: se la cosa che attendi arriva senza altri momenti collaterali disastrosi, allora vuol dire che hai vinto (ma poi contro chi? contro cosa?) e che la cosa bella appena giunta può essere goduta in tutta la sua pienezza. 

È il modo di vivere e vedere le cose di chi vuole avere il controllo su tutto, perché quando ci si rilassa e ci si lascia troppo andare quel controllo si rischia di perderlo. 

Tuttavia, ho imparato che attendere non vale nulla - anche se in una parte nascosta dentro di me continuo a farlo - e che l’unica attesa plausibile sia quella dettata dalla gravidanza e dall’attesa di una nascita. Tutto il resto non esiste. 

O, meglio, me lo ripeto, che tutto il resto non esiste. Mi convinco e mi costringo a pensare solo all’istante che sto vivendo e ad affrontare i problemi quando si presenteranno. Non è facile e spesso non ci riesco. 
Un modo per non pensare è, appunto, dedicarsi ad un lievitato. 
Anche il lievitato implica un'attesa: ma un'attesa che si può controllare.

Ultimamente ho trascorso giornate di grandi lievitati che mi hanno dato grandissime soddisfazioni. 
Ho sfornato una pagnotta, che finalmente ci ha permesso di trovare un tipo di pane che ci piace - dato che da queste parti, nei panifici, producono un pane che poco ci convince, dato che non ha a che vedere con i sapori dell’infanzia. Abbiamo sfornato una pizza che è stata un vero capolavoro, forse merito della farina che ho utilizzato (ViVa, un vero portento!) o forse perché dopo anni a seguire sempre la stessa ricetta, ho deciso di affidarmi alla forza della farina e da quella dosare tutti gli altri ingredienti. E, infine, ho realizzato dei panini alle gocce di cioccolato, da inzuppare nel latte e caffè alla mattina, quando è ancora buio e freddo e che, con il sapore di lievitato cioccolatoso che sprigionano, ti aiutano ad affrontare la giornata con maggiore entusiasmo, anche se magari di entusiasmo non ne vuoi neanche sentir parlare. 
E, comunque, la spinta alla vita che danno i lievitati, nel loro piccolo, non è affatto risibile. È importante e aiuta a controllare il tempo senza farsi prendere da troppe ansie. 

Per i miei panini ho usato duecentocinquanta millilitri di latte, due cucchiaini di zucchero e una bustina di lievito di birra disidratato (sì, uso questo e non ancora il lievito madre, né uso ultimamente il lievito di birra fresco perché non sempre ho ottenuto i risultati sperati: ovviamente la colpa è mia, non sono un esperto panificatore ma una che con la panificazione tenta di rilassarsi!). Poi ho aggiunto circa quaranta millilitri di olio extravergine di oliva (un olio buono, mi raccomando!). Dopo aver mescolato i liquidi e aver fatto fare un po’ di schiuma al lievito, ho aggiunto cinquecento grammi di farina (metà 00 e metà manitoba, ma in futuro mi riservo di utilizzare la farina di tipo 1, dato che la pizza, con la 1, mi è venuta una bomba) e ho impastato. Ho aggiunto poi le gocce di cioccolata e ho impastato altri cinque minuti. 
Ho lasciato lievitare. Non ho un tempo preciso, perché in realtà controllo l’impasto, attendo che si gonfi a dovere e sto attenta che non passi di lievitazione, sgonfiandosi. Raggiunto il raddoppio di volume (il tempo varia in base a temperatura e umidità della casa), do le forme ai panini, tentando una sorta di pirlatura. La pirlatura mi riesce bene solo quando sono dell’umore giusto. Ma, in ogni caso, maneggiare le palline gonfie di lievitazione è un ottimo antistress. Fatte lo forme, lascio lievitare circa un’altra ora: a quel punto bagno il pane con un po’ di latte e inforno a 220 gradi finché il panino non è dorato e croccante.


Probabilmente è una ricetta piena di errori dal punto di vista tecnico, ma il sapore casalingo di cioccolata e lievitato è impareggiabile e la digeribilità è estrema. La coccola è servita. E per una giornata intera non ho pensato a nient’altro: ho solo controllato il tempo di qualcosa che attendevo e che sapevo sarebbe venuto come volevo.

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Non ho una foto dei miei panini al cioccolato perché ce li siamo mangiati... e non ho un tavolo di legno, né fiori da spargere a complemento, né piatti dipinti o posate in argento vintage, né altri elementi patinati con cui fotografare il cibo. Il cibo, ecco, ci piace mangiarlo. L'immagine che vedete è un dettaglio da La colazione sull'erba di Edouard Manet. Sarò banale, ma l'arte può rendere eterno tutto, anche il cibo. Il cibo è sfuggente e transeunte e in una foto ben fatta, credo, non potrei mai racchiuderne tutto il sapore.

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Forte questo post sui lievitati e sul senso e la ... sapienza da dare all'attesa. Per i cattolici, domani inizia il periodo dell'Avvento, il periodo dell'attesa:
"Dio del cielo, se mi vorrai amare, scendi dalle stelle e vienimi a cercare" cantava De Andrè.
E, tornando, al post, mi hai fatto venire la voglia di un panetto buono al cioccolato! Ne sento il profumo.