La seconda stagione di Rocco Schiavone
Con grande giubilo e clamore di giocattoli lanciati in aria e schiantati sul parquet, annuncio che la seconda stagione di Rocco Schiavone è stata la prima (no, non è un gioco di parole) serie televisiva che io e la mia metà abbiamo visto seriamente da quando la peste è tra noi.
Per seriamente intendo: comprendere i dialoghi; guardare le inquadrature; notare le sfumature della fotografia; dar peso alle trovate del montaggio; riuscire a seguire storie più complesse dei salti nel fango di Peppa Pig; farsi trasportare dalla musica; capire i personaggi; piangere con i personaggi; amare i personaggi.
Certo: tra una battuta e l’altra, tra un’inquadratura e l’altra abbiamo dovuto rincorrere la peste e raccoglierla dai punti più impensati della casa in cui si era infilata, ma la peste stessa, devo riconoscere, ha guardato - o meglio tollerato - Rocco Schiavone con noi.
Questo perché - penso - la seconda stagione di Rocco Schiavone è stata bellissima. Lo dico senza troppi giri di parole.
Bellissima.
Inizialmente ero scettica. O, meglio, avevo l’emozione alle stelle perché, avendo letto qualche libro di Manzini e avendo amato la prima stagione, non vedevo l’ora di vedere anche la seconda. Lo scetticismo era dettato dal cambio di regista. Michele Soavi alla prima serie, secondo me, aveva dato un magico quanto necessario tocco di horror e aveva reso Aosta una sorta di buco nero dell’esistenza. Insomma, ci aveva messo del suo.
Eppure, mi sono dovuta ricredere. Anche il regista della seconda serie, Giulio Manfredonia, ha fatto un lavoro esemplare. Con la fotografia, le inquadrature, il montaggio, la musica e quei “tempi morti”, veri soliloqui dell’anima del vicequestore tormentato, in cui Schiavone e il fantasma della moglie riflettono sulla vita.
Ho apprezzato enormemente il diverso uso dei colori sulla base delle ambientazioni: più caldi e bruciati i colori di Roma, algidi, grigi e quasi tendenti al bianco e nero quelli di Aosta. Il montaggio è stato senza ombra di dubbio cinematografico e per nulla televisivo: penso, in particolare, alla sequenza in cui si ricostruisce pian piano il passato di Caterina, non affidato al classico flashback, ma costruito con una sequenza centellinata, un’immagine qua, una là, delle vere e proprie picchiettature sulla pellicola - e per di più silenziose, prive di dialoghi.
La musica, a partire dai titoli di testa, dalla sigla, ha un ruolo fondamentale e riesce a commentare l’immagine anche senza dover dire nulla. In particolare, con l’album della seconda serie, sbuca un pezzo molto romanesco, molto vicino agli stornelli della Capitale, e con la voce di Giallini che mugugna suoni privi di razionalità, ma che perfettamente danno voce alle rotture di coglioni e ai tormenti di Schiavone. Infine, non ho potuto non notare il diverso modo con cui è stato trattato il rapporto tra Rocco e il fantasma della moglie. Se prima Marina era in carne ed ossa e partecipava alla vita della marito, ora è ridotta a mero sembiante riflesso nello specchio o sul vetro di una finestra, spesso sfocata, ma mai “viva” come lo era stata nella prima stagione. E, questo, se è possibile, trasmette ancora di più la malinconia della vita di Schiavone - che diventa malinconia dello spettatore. E, come Marina, anche gli “sfondi” abitati da Schiavone diventano fantasmi senza alcun senso. Roma non è la Roma bollente e afosa dell’estate prima del sette luglio duemilasette: è un posto sempre dai colori caldi e bruciati, ma che vanno a dipingere una Trastevere ridotta a quinta teatrale, spoglia, priva di spessore. E il meraviglioso attico di Schiavone diventa un macigno, un orizzonte chiuso che della vista sul centro di Roma non sa che farsene. Aosta si fa più “viva” rispetto alla prima stagione (dove sembrava più un castello infestato), ma è pur sempre un luogo dell’anima, il luogo doloroso dell’anima chiusa di Schiavone: e che sembri più viva è forse dovuto al fatto che il vicequestore si sta abituando alla sua condizione di solitudine - solitudine dolorosa - e da essa sta traendo, suo malgrado, una nuova vita. E infatti, Rocco, già senza Marina, si trova sul finale anche senza i suoi amici.
Rimango ancora una volta basita dall’incontro e confronto tra i romanzi di Manzini e i film che sono stati tratti. Manzini scrive con la pulizia dello sceneggiatore: quello che si legge, in realtà, già si vede. Ogni tanto inserisce qua e là vere e proprie botte emotive che con la stesura di sceneggiature hanno poco a che fare. Da qui a immaginare tutto un mondo fatto di colori e ambientazioni e posture e scorci diventa complesso, ma, nel caso di Rocco Schiavone, riuscitissimo.
Non da ultimo, il fondamentale ruolo assegnato a Marco Giallini. Se nella prima stagione ho avuto la sensazione che Giallini interpretasse Schiavone, stavolta ho avuto la sensazione che Giallini e Schiavone fossero la stessa persona. Sicuramente così non è, ma sembra quasi che Giallini, nella vita fuori dal set, sia Schiavone. E questo accade perché l’attore, nel personaggio, ha messo l’anima, la sincerità, l’onestà, senza recitare situazioni e emozioni, ma rivivendole - e facendole vivere anche a noi con la stessa, forte intensità.
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