1983
Di recente ho letto un’opera a fumetti tanto enigmatica quanto affascinante. Si tratta di Epos, di Marco Galli. È un’opera che, come molte in questo periodo, mi lascia senza parole. Non sarei in grado di analizzarla in maniera viscerale come sapevo fare anni fa. Ultimamente ho imparato a lasciarmi trasportare da quello che leggo e vedo e a lasciare che l’interpretazione rimanga a livello di sintesi e non di analisi: la sintesi è ciò da cui parte l’artista, diceva Ejzenstejn, artista che poi si impegna a sciorinare quel grumo iniziale nell’analisi, la quale si tramuta in inquadrature, sequenze, montaggio. Secondo il genio russo, l’opera espressa nella forma prescelta dall'artista entra a far parte dello spettatore allo stato di nuova sintesi, qualcosa di inesplicabile: il senso dell’opera che si sta guardando, fruendo, godendo.
Mi sono posta di fonte a Epos esattamente così. Alla ricerca di un senso inesplicabile, ma che rimane sotto pelle come un elemento da me e in me riconoscibile - e tuttavia inconscio. Onirico, direi.
C’è un uomo, un pubblicitario, che di venerdì sera esce dal lavoro, tardi, e percorre la strada verso casa. Vuole tornare a casa, ma tra lui e la sua casa, sul tragitto, lungo il percorso, si mettono in mezzo una serie di fattori: morte, distruzione, pazzi armati di fucili, uno scenario apocalittico. C’è persino un dinosauro. E poi c’è un personaggio apparentemente marginale che a un certo punto recita: “Non ti senti come uno spettatore a volte? La vita ti passa davanti e tu lì a guardare, senza poter fare nulla, inchiodato al tuo divano, senza telecomando. Solo ieri avevo 33 anni, pieni di vita, oggi ne ho 44 e la morte mi sembra corrermi incontro!”
È strano, perché mi sono imbattuta in questa epopea proprio ora, nel mese di ottobre, mese in cui ricorre il mio genetliaco - e in particolare, quest’anno, in maniera dantesca, mi troverò nel mezzo del cammin di nostra vita. Ho immaginato Dante già vecchio, ma in realtà giovanissimo, perché oggi a quest’età si è ancora giovani, forse immobile sul suo divano, sulla sua sedia, a immaginare tre cantiche e cento canti che sembrano tanto un trip lisergico alla ricerca di cosa, poi? Forse che non cercava casa? La casa da cui tutti veniamo? Il suo era un anelare alle stelle; il viaggio fantastico è pieno di sfumature, ma Dante, in realtà, se ne è stato incollato ore e ore e chissà quanti giorni, incrollabile, instancabile, al suo scrittoio.
Anche io, nel millenovecentottantatré, più o meno a quest’ora, me ne stavo immobile. Ero ferma, a casa, nella pancia della mia mamma, ma in realtà, nella mia immobilità, ero in viaggio. Non lo sapevo, ma stavo viaggiando verso la mia nuova casa, quella con mamma, papà e i nonni e poi, anni dopo, con una sorellina. E poi ancora verso una casa tutta mia e creata da me, accanto alla mia metà e alla mia piccola peste.
Inizi un percorso, quando nasci, e non lo sai. Ti rimane qualcosa dentro, una specie di smania, che secondo me è solo la ricerca, in questo viaggio, del porto più sicuro a cui tornare, in cui essere te stesso veramente, il luogo più vicino alla sensazione dell’utero materno. Durante questo viaggio cambiamo spesso pelle, ci camuffiamo, cerchiamo l’identità giusta, per poi capire che un’identità ferma e netta, dai contorni precisi, non esiste: lo sa bene chi ti sta accanto veramente tutti i giorni e tutte le notti.
Solo con le persone più vicine riesci ad essere te stesso, quel te stesso costantemente sfumato, inafferrabile eppure con un senso di fondo. Essere se stessi a casa, sul proprio divano, accanto a chi ti capisce sul serio, è il viaggio più estremo e giusto che ci si possa concedere.
Il grande passo sarebbe mostrarsi per quello che si è, senza maschere (o senza abiti, come il protagonista di Epos), anche a chi è fuori. C’è chi disegna fumetti, chi scrive epopee e poi ci sono io, che ci provo nel mio piccolo con questo blog.
Non mi importa essere letta da fiumi di persone: per me questo posto è un esercizio quotidiano. So che quando scrivo qui sono sincera. Lo sforzo è grande e il viaggio verso me stessa si fa pirotecnico e immaginifico.
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René Magritte, Il donatore felice, 1966
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